Chissà, forse il più sorpreso di tutti era lui. O forse no, con la sicumera di chi sapeva di aver sempre avuto ragione. Fatto sta che dopo tre album bellamente ignorati dal grande pubblico (l’esordio del 1972 "Theorius campus" in condominio con l’amico/nemico Antonello Venditti; "Alice non lo sa", 1973, con il singolo desolatamente ultimo al Disco per l’Estate – d'altro canto, quando passa in tv per promuovere il pezzo De Gregori sembra uno cui Bugs Bunny ha appena consegnato uno dei suoi pacchi bomba -; e l’omonimo del '74), improvvisamente nel 1975 si ritrova a vendere 500.000 copie con il capolavoro "Rimmel", picco massimo secondo posto, pure nella Hot 100 di fine anno. Ma, vabbé, al primo posto quell’anno c’era "Profondo Rosso" dei Goblin: imbattibile.
(De Gregori e De André, in studio all'epoca di "Volume VIII" e poco prima di tagliarsi i capelli)
A dirla tutta, i tempi soffiavano in favore di Francesco De Gregori, da sempre innamoratissimo di Dylan al punto che la prima canzone che strimpellò sulla chitarra, mentre portava soccorso alla Firenze alluvionata del 1966, fu "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano, primo esempio di dylanismo italiano. E Dylan, dopo qualche anno di assenza dalle chart italiane, era tornato prepotentemente in classifica nel '74, con ben tre album ("Pat Garrett & Billy the Kid", "Planet Waves" e il live "Before the Flood"), e anche in quel '75 fece la sua porca figura con "Blood on the Tracks" e "The Basement Tapes".
Come poteva fallire il colpo un album la cui opening & title track cominciava con gli stessi quattro accordi di "Like A Rolling Stone" (gli stessi che ruberanno, anni dopo, i Cure per la loro "Boys Don’t Cry")?
Rimmel, col suo successone annunciato e inatteso, è un album fondamentale perché in un annetto fece piazza pulita del riferimento storico della canzone d’autore italiana, gli chansonnier francesi Jacques Brel e Georges Brassens, per non parlare di Boris Vian, e impose gli Usa come modello. Benché Dylan dalle nostre parti fosse andato in classifica anche nella seconda metà dei '60, anche se nei piani bassi della Top 20 e mai con "Blonde on Blonde" (!), fino ad allora era stato patrimonio di Mogol, suo traduttore ufficiale in Italia, e del suo entourage beat: Lucio Battisti (fanatico di Dylan e non a caso uno dei pochi idoli italiani di De Gregori), Dik Dik, Luigi Tenco (sì, Mogol lavorava con Tenco), The Kings, Gianni Pettenati, Roby Matano, The Minstrels. Cioè, i cantautori seri (Paoli, De André, Lauzi) guardavano alla Francia, mica al folk-beat Usa. Giusto Guccini, ma anche lui, fino al '76, chi se lo sarebbe filato?
De Gregori cambiò la canzone d’autore italiana, al punto tale da convertire a Dylan e all’America perfino il principe della francofilia, Fabrizio De André, con cui nel '74 aveva collaborato per "Canzoni", bissando l’esperienza con "Volume VIII", nel '75. Due dischi imbevuti di Dylan, pure tradottovi. E Dylan faceva capolino in "Rimmel", pesantemente, un po’ dovunque: nell’hammond del ritornello di "Pablo"; o nel plagio confesso di "Buonanotte fiorellino", che cava diamanti dall’opacità di "Winterlude" (da "New Morning", 1970), al cui testo originale si allude pure nel titolo di "Piccola mela", o nel fingerpicking di "Le storie di ieri"; o nel profluvio di metafore ermetiche ed oscuramente allusive; o nella scelta di accordi di "Quattro cani," che sono quelli, rimescolati creativamente, di "Girl from the North Country" (1964).
Nonostante la secca smentita di De Gregori a Maurizio Becker (nel suo bellissimo saggio "C'era una volta la RCA"), la leggenda vuole che proprio questo brano getti una luce sulle frequentazioni umane ed artistiche del cantautore romano. I quattro cani non sarebbero tali, puri e semplici, come afferma l'autore (la cui riservatezza sulla propria vita privata rivaleggia con quella di Battisti), ma, Wiki citando, Antonello Venditti, il cane bastardo "che conosce la fame e la tranquillità"; il produttore Rca Italo "Lilli" Greco che "va dietro i fratelli e si fida"; De Gregori stesso, il "cane di guerra che ossi non ha"; e Patty Pravo la "cagna, quasi sempre si nega qualche volta si dà".
Già, la Patty: a cui Francesco aveva regalato "Mercato dei fiori" per il suo "Incontro" e da cui aveva preso in prestito i Cyan, gruppo storico della veneziana, che quasi al completo suona in Rimmel. E il marito della Patty, quel Gordon Fagetter, pure ex batterista dei Cyan, al Francesco aveva pure dipinto la copertina dell’album del '74. Come dire: una frequentazione dalle solide radici. E poi Lucio Dalla, che gorgheggia in "Quattro cani" e ritocca, non si sa quanto pesantemente, "Pablo".
Versione accettabile e quieta dell’hippismo de noantri (a differenza di Claudio Rocchi e dei primi Alan Sorrenti e Alberto Camerini), capace di veicolare in Italia sonorità e scritture di dieci anni prima (seppur ispirato agli stornelli toscani e ai canti sardi, il rococò di "Piccola mela" quanto deve a "Ruby Tuesday" degli Stones?), conservando il piglio radical chic dei salotti romani (non a caso, "Il signor Hood" è dedicata a Marco Pannella), "Rimmel" è uno spartiacque nella musica italiana.
Il successo di questi camei intimisti costerà però caro al comunista De Gregori: nonostante "Il signor Hood" e "Le storie di ieri", le sue prime ballate politiche, verrà processato sul palco dai soliti intelligentoni più comunisti di lui. La colpa? Essere diventato commerciale e borghese. La solita storia.
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L'articolo Francesco De Gregori - Breve guida a "Rimmel" di Francesco De Gregori di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2012-05-22 00:00:00
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