Alfio Antico è uno tra i più importanti musicisti italiani di tammorra e tamburo a cornice. Eppure fino a pochi mesi fa il suo lavoro era spesso - ingiustamente - relegato alla sola attenzione dell'universo della musica popolare. Il suo nuovo album, "Antico" (un "Primascelta" per noi Rockit) arriva a rompere quei confini, presentandosi come uno dischi più coraggiosi pubblicati negli ultimi mesi in Italia. Prodotto da Lorenzo Urciullo (alias Colapesce) e Mario Conte, racconta di terra (la sua amata Sicilia) e anima, lo fa spesso affidandosi al suono del solo tamburo, scarnificato e diretto verso una dimensione che non è né qui né ora ma altrove.
Da chi ha imparato l'arte del tamburo Alfio Antico?
Da un punto di vista puramente didattico, ho fatto tutto da solo. Non mi ha insegnato nessuno, anzi è il tamburo stesso il mio vero maestro. Io ho creato lui e lui ha creato me. Come racconto sempre, però, era mia nonna materna quella che suonava il tamburo e ne rimasi folgorato sin da bambino, il suo modo di suonare e le sue favole mi fecero innamorare di questo meraviglioso strumento.
Tra lei e lo strumento si è instaurato, immaginiamo, un legame molto intimo negli anni. Qual è la caratteristica, il pregio più importante che gli riconosce?
Io e lui siamo fratelli, ma anche padre e figlio. Per me era l’unica compagnia notturna, mentre facevo la transumanza con le pecore quando ero ragazzo. Gli riconosco la sua fedeltà, non mi ha mai abbandonato, c'è sempre stato.
A 18 anni incontra Eugenio Bennato e quell'incontro le cambia la carriera. Quali sono gli altri snodi cruciali che ha affrontato negli anni e che l'hanno resa un'artista più maturo?
Ho intrapreso parecchie collaborazioni, in tutti i casi ho dato e ricevuto tanto. Un importante snodo lo hai già detto tu, Eugenio è un fratello. Se devo dirne un altro parlo di teatro: Maurizio Scaparro mi ha dato tanto, ha donato a me e al mio tamburo la teatralità.
"Antico" è fortemente legato alla sua terra d'origine, la Sicilia. Quale immagine di Sicilia le interessava evocare?
Da sempre parlo della mia terra, dei ricordi che ho e di quello che vedo adesso. In questo album canto i profumi, gli odori che mi hanno accompagnato e cresciuto. Parlo dei venditori ambulanti e delle loro frasi condite con metafore per vendere il pesce, canto la mia terra e la mia anima.
Lorenzo Urciullo e Mario Conte, i due produttori del disco, si sono presentati da lei con un'idea già chiara di come dovesse suonare questo disco? O si può dire che avete contribuito a costruirla insieme?
Abbiamo lavorato insieme. Nei miei progetti conta l’amicizia, siamo una grande famiglia è c’è stata fiducia reciproca sotto tutti gli aspetti. Loro avevano le idee chiare sui suoni da utilizzare, o meglio da non utilizzare, perché spesso mi hanno lasciato “nudo” da solo con il tamburo per sottolineare l’aspetto arcaico della mia musica.
Avete registrato utilizzando uno studio mobile, a Gangi, immersi nella natura. Quali erano i ritmi di una giornata tipo di registrazioni? Quanto l'ambiente e la convivenza, la condivisione degli stessi spazi, hanno marcato il processo creativo?
Eravamo immersi nella natura, nelle Madonie. Questo ci ha permesso di interpretare il disco, nel senso che quello che ho scritto era lì con noi: nel suono delle foglie, nel belare delle pecore e nel vento. Abbiamo registrato spesso di notte, per rendere il tutto ancora più magico. Eravamo sempre insieme, l’album è maturato intorno ad un piatto di verdure colte da noi, con un bicchiere di vino. Insomma è stato qualcosa di estremamente umano.
Perché secondo lei il mondo della musica popolare ha perso aderenza con il presente?
Perché il passato è visto come un soprammobile, il Popolare è il popolo, lo dice la parola stessa, non vuol dire solo passato o dimenticato, anzi. Bisogna viverla nel presente e guardare avanti, in modo tale che i racconti popolari possano non essere dimenticati. Il rischio è, come ho già detto, quello di finire nel folklore da cartolina e relegare il tamburo alle sagre o peggio appeso al muro di un ristorante siciliano.
Immagino possa essere strano, per uno che fa musica da più di 40 anni, trovarsi di colpo a far fronte a nuove attenzioni, soprattutto da parte di un pubblico che magari non l'aveva mai conosciuta direttamente. Come ci si sente?
È una bella sensazione, una rinascita. Più che altro credo che, un certo pubblico, abbia iniziato a conoscermi in una maniera diversa. Prima forse risultavo essere solo “quello con il tamburello”, ora c’è anche l’immagine poetica e questi nuovi suoni che mi rendono quello che sono realmente: puro e arcaico.
Qualcuno ha detto che il suo album potrebbe essere ascrivibile a diversi lavori che vengono raccolti dalla critica sotto il nome di Italian Occult Psychedelia. Ne aveva sentito parlare prima?
No, non so cosa sia. Io mi diverto a suonare, in tutte le sue forme, l’importante è che ci sia il Tamburo.
Che musica ascolta? C'è stato un disco uscito recentemente che l'ha colpita?
Ascolto parecchia musica classica, specialmente del periodo barocco. Per le nuove uscite sto aspettando con gioia l’ultimo lavoro del mio amico Capossela, anche se è stata rimandata l’uscita si tratta di un gran disco. In questo momento mi sto concentrando per le prove e per i live, quindi sto ascoltando principalmente il mio disco.
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L'articolo Alfio Antico: l'importante è che ci sia il Tamburo di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2016-03-07 14:35:00
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