Il fascino di un disco si concentra attorno a molteplici sfaccettature: fra queste c'è la copertina, che nel corso dei decenni si è ritagliata una dimensione importantissima, quasi sacra, un concetto tanto forte da contribuire a rendere iconica una raccolta di canzoni. "Art Record Covers", edito da Taschen, è un'opera ambiziosa, un catalogo formato da oltre 600 copertine della musica contemporanea ad esplicitare rapporti e contaminazioni reciproche intercorse fra artisti e musicisti. Ne parliamo con Francesco Spampinato, autore del volume, in un'intervista che spazia fra Pop Art e Postmodernismo, citando CCCP, The XX e moltri altri...
Prima di focalizzarci sul libro, un po' di background: come si è formato Francesco Spampinato?
Mi sono laureato in Conservazione dei Beni Culturali e poi in DAMS Arte nei primi anni 2000, poi mi sono trasferito a New York per un Master in Modern Art alla Columbia University che ho finito nel 2006. Sono poi ritornato in Italia e poi di nuovo a New York e da pochi mesi di nuovo in Italia. Ho vissuto a New York circa 7 anni in tutto ma per quanto la ami non ho mai voluto restare negli Stati Uniti per sempre, così ho deciso di riavvicinarmi all’Europa. La scusa è stata un dottorato alla Sorbonne Nouvelle a Parigi che prevedo di concludere entro la fine dell’anno. Dovendo lavorare ad "Art Record Covers" e alla tesi ho pensato che fosse il momento migliore per tornare. Come formazione sono uno storico dell’arte contemporanea, disciplina che durante la mia permanenza negli Stati Uniti ho insegnato per cinque anni, insieme ad altri corsi, alla Rhode Island School of Design di Providence. Sono sempre stato interessato, però, a quei fenomeni in cui l’arte esce dai circuiti tradizionali per cercare nuovi tipi di pubblico e da qui il mio interesse per le relazioni tra arte e musica, ma anche arte e mass media, arte e design ecc., ovvero tutti quei territori di confine in cui l’arte incontra la realtà quotidiana. Da appassionato di musica e collezionista di dischi, le corrispondenze tra arte e musica mi hanno sempre ispirato e sono diventate una delle aree di ricerca più stimolanti per me.
Italia come punto di partenza, estero come cornice per sviluppare la tua formazione (e per dare alle stampe le prime pubblicazioni): sembra la storia di un "cervello in fuga", ma c'è qualcosa in più?
Sicuramente faccio parte di una generazione che è stata costretta a “fuggire” ma, a differenza di tanti, sono sempre stato determinato a tornare in Italia, abbagliato dall’idea di poter mettere un giorno a frutto a casa un’esperienza maturata all’estero. Da studente ho sempre cercato di interpretare fenomeni contemporanei (artistici, musicali o di costume) attraverso gli strumenti che imparavo all’università e così continuo a fare ancora oggi. Ho sempre avuto una predisposizione all’analisi critica ma raramente questa mi è stata sollecitata durante i miei studi in Italia. Il passaggio agli Stati Uniti è stato cruciale per permettermi di capire cosa volevo e avrei potuto fare. Negli anni a New York ho sempre mantenuto un ponte con l’Italia scrivendo per diverse riviste, ma per i miei libri ho puntato da subito a editori internazionali perché ho sempre indirizzato le mie ricerche a un pubblico globale. In Italia ci sono tante case editrici ma pochissime fanno un lavoro “di ricerca” su questioni legate ad arte e design e, tra queste, pochissime pubblicano libri in inglese e hanno una distribuzione internazionale. Art Record Covers è il mio terzo libro. I primi due, usciti entrambi nel 2015, sono: "Come Together: The Rise of Cooperative Art and Design" (Princeton Architectural Press, New York) e "Can You Hear Me? Music Labels by Visual Artists" (Onomatopee, Eindhoven).
Passando al tuo libro "Art Record Covers", mi ha fatto riflettere la scelta della copertina: un'opera di Andy Warhol che ha come soggetto principale John Lennon. Sembra la sintesi iconica perfetta tra musica e arte visiva, tematiche centrali del tuo lavoro: c'è un ragionamento ponderato in tale direzione dietro la scelta della copertina o altre motivazioni?
Il criterio adottato per scegliere l’immagine di copertina del libro è stato proprio quello di trovare un’immagine che sintetizzasse questa doppia anima, da un lato il mondo dell’arte, dall’altro quello della musica. Warhol è sicuramente l’artista più noto tra quelli presenti in Art Record Covers, uno di quelli che ha realizzato più copertine di dischi, nonché uno degli artisti il cui stile è maggiormente riconoscibile. Lennon, invece, è una delle icone della musica rock e pop di tutti i tempi e il suo volto per molti è addirittura più riconoscibile della sua musica. Si tratta quindi di una combinazione particolarmente rappresentativa per comprendere l’ethos del libro.
Abbiamo a che fare con un catalogo molto ampio, formato da seicento cover selezionate da una base di oltre tremila: quali sono stati i criteri e quanta dedizione è stata necessaria per effettuare questa raccolta?
Ho incominciato a lavorare a questo progetto esattamente dieci anni fa e poco per volta ho raccolto dati su circa tremila copertine di dischi realizzate da artisti, o riportanti l’immagine di un’opera d’arte, e dischi d’artista, e le ho organizzate per aree tematiche in modo che tutti i movimenti e tendenze artistiche del XX e XXI secolo fossero ben rappresentati: modernismo, Pop Art, Arte Concettuale, postmodernismo fino alle tendenze di questi ultimi trent’anni, dal Post-Human al post-Internet. Il criterio che ho adottato per selezionare le quasi 600 copertine che sono nel libro è stato di rispettare innanzitutto questo progresso storico-artistico. È stato difficile dover rinunciare a tante copertine per me molto importanti ma il libro così è già piuttosto enciclopedico. A parte il concepimento del libro, la selezione, le informazioni di base su ogni disco, l’introduzione e le interviste, una grande parte del mio lavoro è consistita nello scrivere i testi che accompagnano le copertine. In questi testi ho cercato di sintetizzare: informazioni sull’artista; sul musicista, cantante o band; sulla musica; e sulla collaborazione che ha portato al disco. Ho cercato anche di fornire un’interpretazione critica della collaborazione, il tutto accompagnato da informazioni e retroscena che ho raccolto negli anni attraverso i miei studi o il contatto diretto con molti artisti, informazioni e retroscena non disponibili al grande pubblico e che anche esperti del settore, a quanto alcuni di loro mi hanno detto, ignoravano fino a questo momento.
Nell'introduzione si parla della prima era discografica, del fatto che le release con una cover dedicata si siano sviluppate solo a partire dagli anni '40: la concezione moderna di album quanto ne ha giovato dall'incontro fra suono e forme visive?
È come se il senso della vista abbia contribuito a rinforzare la percezione dell'udito. Con l’invenzione della copertina il disco diventa a tutti gli effetti una nuova area di produzione artistica come succederà qualche tempo dopo con il videoclip, non a caso anche questo nato da strategie commerciali. La storia delle relazioni tra immagini e musica è molto più antica ma con il disco si solidifica e diventa un fenomeno indipendente, indipendente sia dalla musica che dall’arte in fondo. La rivoluzione del disco, sul mercato dalla fine del XIX secolo, è stata quella di offrire un nuovo tipo di esperienza all’uomo moderno, un rapporto domestico e quindi intimo e personalizzato con la musica che fino allora era destinata solo a pochi e in luoghi deputati. Fino alla Seconda Guerra Mondiale i dischi sono stati venduti in copertine generiche, molto simili agli album fotografici, da cui l’utilizzo del termine “album”. Da quando Alex Steinweiss realizza la prima illustrazione per una copertina nel 1940, le immagini diventano parte integrante del disco. Come se non bastasse, nel 1948 Steinweiss spinge la Columbia Records, di cui era art director, a passare dal 78 al 33 giri (passaggio che porta da circa 5 a 20 minuti per lato). L’aumento della durata e l’utilizzo ormai consolidato di immagini trasforma il disco in un oggetto capace di offrire una vera e propria avventura sinestetica, in cui l’ascoltatore decide di investire una consistente quantità del proprio tempo. Da un lato a giovarne è la musica, da un lato le immagini; entrambe rinunciano a qualcosa ma al contempo, insieme, inventano una nuova esperienza. La storia che presento e racconto in Art Record Covers, però, non è solo quella dell’incontro tra musica e immagini in generale – che se guardiamo alla storia delle copertine, sono state create principalmente da illustratori, grafici e fotografi – ma tra la musica e la storia dell’arte cosiddetta “alta”, nel tentativo di spiegare come la differenza tra “alto” e “basso” o “popolare” quando si parla di cultura sia oggi da considerare obsoleta. A fare dell’arte “arte” è sempre stato il contesto in cui questa viene esibita e in cui acquista un valore intellettuale ed economico. Ma l’artista può rompere questo “incantesimo” trasformando la realtà in opera d’arte o, viceversa, portando l’arte nella realtà quotidiana, che è esattamente quello che succede con la copertina di un disco.
Le interviste a personalità di rilievo culturale internazionale forniscono elementi importanti, una profondità preziosa per interiorizzare al meglio le tematiche. Quale visione artistica ti ha affascinato maggiormente?
I sei artisti che ho intervistato nel libro sono Tauba Auerbach, Shepard Fairey, Kim Gordon, Christian Marclay, Albert Oehlen e Raymond Pettibon. Sono tutti artisti esemplari per comprendere come l’arte trovi ispirazione nella musica e viceversa, ed esemplari per comprendere come la differenza tra arte e musica sia in realtà solo una differenza formale ma non di contenuti. Li ho scelti perché ognuno di loro non ha solo realizzato delle copertine di dischi ma è anche coinvolto, o lo è stato, in progetti musicali in prima persona e nelle proprie interviste parla della musica con profonda riverenza. Un caso a se stante, forse, è quello di Kim Gordon, meglio conosciuta come anima dei Sonic Youth ma che in realtà ha dedicato all’arte, come artista e scrittrice, gran parte della sua vita. Tra di loro, però, la figura che considero più significativa per comprendere le corrispondenze tra arte e musica è senz’altro Pettibon, soprattutto per il modo in cui ha influenzato la nascita e l’evoluzione del punk grazie ai disegni che faceva circolare alla fine degli anni '70 in forma di zine nel sud della California, molti dei quali sono stati poi utilizzati per flyer e copertine dei Black Flag e altre band della SST Records, di proprietà di suo fratello. A oggi più di cento copertine di dischi riportano opere di Pettibon. A parte quelle per la SST, Sonic Youth, Mike Watt e Foo Fighters, la maggior parte sono per garage band sconosciute a cui l’artista solitamente è felice di dare l’autorizzazione a utilizzare un suo disegno gratuitamente. Un retroscena interessante è stato per me scoprire che Pettibon oggi ascolta molto hip-hop, soprattutto trap.
La presenza italiana fra artisti e copertine realizzate è piccola ma robusta: significativa è la scelta di trattare i CCCP e gli Almamegretta; la scena musicale italiana ha solo pochi esempi degni di nota o pensi sia il caso di parlarne in una pubblicazione editoriale dedicata?
Il disco dei CCCP è "Epica Etica Etnica Pathos" (1990) e la copertina è stata realizzata da Luigi Ghirri mentre la copertina di "Vulgus" (2008) degli Almamegretta è di Mimmo Paladino. Quanto ad altri italiani, nel libro ci sono copertine di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari aka Toiletpaper, di Francesco Clemente per i Rolling Stones e un disco solista di Mick Jagger, di Enric David, uno degli artisti italiani più interessanti delle ultimi anni, e ancora di Michelangelo Pistoletto, che ha realizzato una copertina per il jazzista Enrico Rava come uno dei suoi “quadri specchianti”, e quella di Mario Schifano per Le Stelle, l’unica vera band italiana di rock psichedelico, band che lui stesso ha prodotto e presentato al pubblico come negli stessi anni faceva Warhol con i Velvet Underground. Sicuramente questo materiale potrebbe essere la base per un’esplorazione delle copertine d’artista in Italia, esplorazione che potrebbe anche comprendere le copertine realizzate da illustratori e fumettisti come Milo Manara e Andrea Pazienza. Non mi limiterei, però, solo a un discorso legato alle copertine ma anche a collaborazioni che hanno dato vita a performance, installazioni, testi, nella maggior parte dei casi nate da lunghi rapporti di amicizia. Uno studio del genere non esiste ancora e credo che sarebbe necessario per comprendere quanto si sia fatto in Italia e servire da esempio alla situazione attuale che mi sembra piuttosto arida da questo punto di vista.
Cosa diventerà Art Record Covers? Ti aspetti un catalogo per cultori, intenditori ed appassionati o ha gli elementi giusti per diventare un forte riferimento bibliografico per la cultura visiva e gli studi affini?
Sono ancora incredulo per l’attenzione mediatica che sta ricevendo il libro con già più di cento recensioni in tutto il mondo e intere pagine su giornali come LA Times, Le Figaro, Il Corriere della Sera, per non parlare delle recensioni sulla stampa specializzata in arte e musica, e delle numerose interviste. Tutti spendono parole di elogio per il libro: chi lo definisce un libro monumentale, chi un cult, chi immagina che sia destinato a diventare un riferimento bibliografico. La mia aspirazione era innanzitutto quella di mettere un punto fermo, di costruire una “reference” che rimanesse anche in futuro. Se oltre a un riferimento bibliografico il libro diventasse un cult non potrei essere più soddisfatto. Ma per fare questo tipo di valutazioni bisognerà aspettare qualche anno.
Arte e musica hanno dato voce ai fenomeni sociali giunti alla ribalta nei decenni trascorsi: gente che riconosce la propria ideologia nei testi delle canzoni, o nelle immagini stampate come copertine dei dischi. Credi che all'alba degli anni '20 del terzo millennio questa dinamica sarà sempre centrale o verrà sostituita da altre forme di riconoscimento?
La musica ha un ruolo centrale all’interno di tutte le sottoculture giovanili, non solo come colonna sonora ma come serbatoio di pensieri, modelli e sensazioni attraverso i quali diverse generazioni di giovani hanno definito la propria identità nella società. Penso alla cultura psichedelica, al punk, all’hip-hop, al goth, alla club culture. Questo chiaramente continua a succedere ancora oggi ma le sempre più subliminali strategie di branding, con le loro mani pesanti ben affondate sui social media, rendono sempre più difficile distinguere le forme espressive autentiche da quelle costruite a meri fini commerciali. Per molti avere “identità”, nella vita come nella musica, è sempre più difficile a quanto pare.
Restando in tema di sviluppi futuri, domanda di chiusura: lo spazio della copertina è stato territorio di sperimentazioni, di eccessi e tentativi artistici più o meno riusciti. Oggi siamo di fronte a due scenari, opposti ma complementari: da una parte il ritorno del vinile con le sue copertine grandi e curate, dall'altra la fruizione reale della musica, sul telefono o laptop, nella quale la copertina ha lo spazio di pochi pixel. Come sta cambiando l'arte di disegnare le copertine dei dischi?
I media attraverso cui la musica è stata distribuita nel corso dei decenni hanno portato a forme di convergenza diverse con il mondo delle immagini. Quando ho incominciato ad ascoltare musica io, per esempio, negli anni '90, il medium principale era il CD e nonostante siano state create copertine fenomenali in quegli anni, il fatto che fossero concepite per un supporto più piccolo del disco in vinile si vede chiaramente. Si tratta, infatti, di immagini meno dettagliate e riconoscibili a distanze maggiori. Con i thumbnail online la situazione è diventata ancora più estrema. Tra le copertine più significative per comprendere questo passaggio ci sono, per esempio, quelle degli XX, che usano una specie di linguaggio primario riconoscibile universalmente. Ma il ritorno del vinile ha portato nuova linfa vitale e nuove collaborazioni. I 30,5 x 30,5 cm. della copertina di un vinile consentono a grafici, illustratori, fotografi, e così anche agli artisti visivi, di creare immagini che richiedono più tempo all’ascoltatore del disco, che non si esauriscono in una suggestione ma che lo invitano a lasciarsi andare a quell’esperienza sinestetica di cui parlavamo prima. In questo senso, credo che il ritorno del vinile – come del libro, della rivista e della fanzine – sia sintomo del fatto che l’essere umano ha bisogno nella propria quotidianità, sempre più smaterializzata e alienante, di un contatto fisico con il mondo che lo circonda. Per questo credo non solo che la copertina del disco avrà ancora lunga vita, ma anche che questo supporto possa essere sempre più il veicolo di una forma di espressione artistica a se stante.
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L'articolo Art Record Covers: il libro delle copertine che hanno fatto la storia della musica di Giandomenico Piccolo è apparso su Rockit.it il 2017-03-20 11:52:00
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