Nel 2006 facevano la loro comparsa sulla scena rock italiana, attaccando sul loro disco d'esordio una moneta da un euro. Dodici anni e sei album dopo, i Ministri (Davide Autelitano, Federico Dragogna e Michele Esposito) tornano con l'anima rock di sempre e un lavoro ("Fidatevi", in uscita oggi per Woodworm Label) più cupo e disilluso – e, in alcuni casi, anche doloroso - che mai. Con l'idea che fidarsi possa essere la cosa più pericolosa da fare, ma anche ciò che genera tutto quello che conta davvero. Ne abbiamo parlato insieme a Federico Dragogna.
Il vostro nuovo disco si intitola "Fidatevi" e l'importanza della fiducia è un tema che lo attraversa interamente, dalla società, ai rapporti di coppia, alla religione. Non so se lo abbiate fatto consapevolmente, penso in parte anche di no.
No, nel senso che quando stavamo per scegliere il titolo abbiamo guardato dentro al disco e ci siamo resi conto che il tema della fiducia era presente in un sacco di punti, ma non ce ne eravamo accorti prima.
In copertina però ci avete piazzato uno squalo e, anche se una minoranza delle canzoni racconta la fiducia nei suoi aspetti più positivi e speranzosi (“Mentre fa giorno”, “Nella battaglia”, in parte anche “Dimmi che cosa”), tutta una serie di altri pezzi è molto amara e disillusa. E in alcuni casi anche molto nera, penso soprattutto a “Spettri” o a “Crateri”. Quali sono le riflessioni che avete maturato sulla fiducia in questo periodo e soprattutto vale la pena fidarsi, nel momento in cui c’è il rischio che rimangano "solo crateri"?
Prima di tutto ci hai beccati, "Spettri" e "Crateri" sono sicuramente il fondo nero che nel disco viene raggiunto subito per poi tentare una ricostruzione. A volte le canzoni sono delle riflessioni, hanno davvero il carattere di affrontare un tema. "Spettri" e "Crateri" invece sono proprio delle grida d’aiuto, scritte in un momento molto molto buio. E se "Spettri" riesce anche a fare giochi di parole e sembra avere un pelino di distanza in più e, come hai detto tu, di disillusione dal tema, "Crateri" è proprio un distillato di dolore. Parole semplicissime, urlatissime, dolorosissime. Effettivamente, il disco stesso è stato anche un tentativo per fidarsi di nuovo, per mostrare fiducia. Privatamente ad un’altra persona. Come band a quello che siamo, a ciò che ci tiene insieme.
Nell’arco dei vostri dodici anni come band, in molti hanno letto nei vostri pezzi una certa attenzione certamente alla società, ma anche alla politica. Il vostro disco esce oggi, a distanza di pochi giorni da una data in cui in molti ci hanno chiesto di fidarci di loro. C'è un collegamento fra le due cose?
Dovevamo comunque uscire in questo periodo, quindi è stato anche il caso a porci così vicini alle elezioni che hai citato. Mi vengono due osservazioni: la prima è che in realtà la fiducia, al contrario di altre parole, abbia ancora un valore sacro molto forte, per cui in realtà nessun politico ha detto "Fidatevi di me". Forse giusto il buon Silvio potrebbe aver fatto un salto del genere. Ma secondo me questa espressione non l’ha usata. Anche perché la fiducia è spesso basata sulla mancanza di contenuti, sul dire "Fidati" senza presentare le cause per cui questo conviene. È una scommessa al buio. Al contrario, le campagne elettorali di oggi è storico che siano mosse anche solo da 80 euro, no? Se una fiducia vale 80 euro, è proprio una fiducia da strada. In questo senso, penso sia un tema che in qualche modo emana ancora una forza sacra, anche nel linguaggio. Qual è l'altra cosa che mi hai chiesto?
La prima parte della domanda era indirettamente legata al vostro vedervi o meno come una band politica.
I nostri dischi in realtà, per chi li ha ascoltati tutti da cima a fondo, hanno sempre contenuto anche ballate piuttosto dolcione. Anche il primo, che viene ricordato come così battagliero, penso a "Le mie notti sono migliori dei vostri giorni". Che tra l'altro potrebbe essere di questo disco, tutto sommato. Poi, noi stessi a volte abbiamo certamente sottolineato, scegliendo alcuni singoli forse anche perché li sapevamo rendere meglio, una nostra anima di contrattacco. Anche se era sempre un contrattacco molto dubbioso, come nel dire che in tempi bui sto diventando buio anch’io. Ci mettevamo sempre un po’ dentro. Siamo una band cresciuta in un periodo in cui il rock e fare musica erano profondamente legati a centri di aggregazione che avevano come cultura di riferimento una cultura di tipo politico. Centri sociali, per dirla in un altro modo. Non c’era bisogno di essere un tesserato del PCI per finire in un centro sociale a quindici anni, era dove la cultura si muoveva, dove aveva vita. Anche gente che chissà dove ha votato oggi magari a sedici anni aveva una band e suonava in un centro sociale. Era semplicemente bello che tu facessi musica al di là dei valori che c’erano dietro, in una situazione dove il guadagno non era davvero mai il punto. E questo non dimentichiamocelo, come esperienza di quella stagione. Con tutti i suoi limiti, aveva questo tipo di respiro bello, che ancora poche volte si sent. Oggi un locale deve stare dietro al prezzo dei cocktail per poter garantire la musica. Questo è il nostro legame, il fatto di parlare del mondo e dei problemi fuori non dico che ci sembra dovrebbe far parte di ogni cantautore, però ci sembra più normale che parlare solo ed esclusivamente di una ragazza. Bisognerebbe iniziare a dare un aggettivo al pop in questo, quando non parla del mondo fuori, piuttosto che definire subito politico qualcosa. Altrimenti ricorda quelli che, se vedono un film in bianco e nero, pensano che sia noioso.
Insieme alla fiducia, un altro argomento che ricorre nell’album è il bisogno di piacere agli altri per il timore di restare soli, adeguandosi alle loro aspettative e alle loro pressioni. In più interviste avete dichiarato un rapporto di diffidenza verso i social, penso anche alla mailing list che avete voluto creare per dialogare con i fan in occasione del lancio di "Fidatevi": mi piacerebbe sapere quanto abbia influito lo sviluppo di una società sempre più virtuale nella nascita di queste riflessioni rispetto all'adeguamento a ciò che gli altri si aspettano.
A parte che di solito si paga 40 euro all’ora per sentirsi dire le cose analizzate così. I social network sono uno strumento, un programmino che qualcuno ha creato con date regole che poi si è messo ad aggiornare. Però voglio dire, l’uomo è noto per inventare cose che di per sé sono solo cose e incominciare a farle entrare nella vita stessa, nel biologico. Ad accoppiarsi con esse in una maniera anche un po’ imprevedibile. Io penso che il punto a cui siamo arrivati adesso fosse in larga parte imprevedibile all'inizio. Noi siamo nati con Myspace, che era un social basato sulla musica, dove ognuno veniva invitato ad avere una pagina la più diversa e la più personalizzata possibile. E siamo arrivati ad un grande contenitore con una grafica e un layout comune a tutti, dove scorriamo su e giù, con precise regole circa la quantità di testo inseribile in un post e colori renderizzati più o meno bene. Soprattutto, sotto ogni contenuto scritto su questi muri virtuali arriva gente che passa lì solo per caso e che spesso cerca di insultarti e distruggerti, mentre tu passi il tempo a cercare l’angolazione da cui sembrerai più bello. Rispetto a ciò che dicevi tu, io credo che questo stia cominciando a influenzare le nostre vite. Non a caso, quando la gente sta lontana dai social parla di disintossicazione, termini comunque biologici. Credo che questo abbia largamente a che fare con il crescere dell’ansia, che sta arrivando su di noi come una grande influenza, una grande peste. La paura è qualcosa di sfuggente, di irreale. È una valutazione ansiosa del futuro. Il fatto che adesso iniziamo a giocare su campi irreali sta facendo crescere in noi solo l’irreale. Credo che queste cose siano molto legate e che esploderanno sempre più. In tutto questo, l’intento era comunque davvero quello di cercare soltanto di osservare. Osservare, rispetto a esperienze di vita e di sangue, che scorrevano nelle nostre vite. Penso che questa relazione ci sia e sia molto forte, dobbiamo stare attenti. Come stavo attento io ai funghi velenosi da piccolo, anche se erano bellissimi.
Com'è nata "Memoria breve"?
È un pezzo a cui tenevamo molto, che stava rischiando di non finire nel disco perché non gli trovavamo una veste adatta. Poi proprio all’ultimo è entrato l’arrangiamento giusto, un attimo prima di entrare in studio. È un pezzo ovviamente privatissimo e che tocca la memoria. Il fatto incredibile di quanta vita hai dietro, potresti sdraiarti a letto un pomeriggio e metterti a ripensare e a ricostruire tutto quello che hai vissuto come se potesse bastarti. Invece non riusciamo mai ad averlo presente, non riusciamo a portarci dietro tutte le esperienze e il sapere che abbiamo in testa per evitare gli errori. Il pezzo è nato cercando di andare indietro, scandagliando senza una linea editoriale quello che trovavo nella memoria. All’inizio c'è il parcheggio dove ho imparato a guidare, la Città Mercato di Merate. Andavo a guidarci la domenica mattina, quando era chiuso, mentre adesso credo siano tutti sempre aperti. Però il passato va anche oltre a questi ricordi da canzone pop. Per esempio, i pomeriggi in cui eri incredibilmente affascinato dall’idea del morire, come quando cominci a immaginare il tuo funerale e riesci addirittura quasi a emozionarti. E tutto questo bagaglio non impedisce mai di fare degli errori clamorosi. Quando stavo scrivendo quel pezzo, alcuni mi sembravano irreversibili.
Parlando della parte musicale, com’è nato il vostro rapporto con Taketo Gohara e perché avete scelto proprio lui per produrvi?
Take lo abbiamo conosciuto nel 2008 e ci abbiamo lavorato per "La piazza EP" e in realtà anche per buona parte di "Tempi bui". Da allora è diventato semplicemente un grande amico, vive qui a Milano ed è nato qui da genitori giapponesi. Non serve menzionare tutti gli altri dischi a cui ha lavorato, da Capossela a Edda e Negramaro. È una persona di un entusiasmo e di una bellezza incredibili. Un po' come quegli amici con cui non riesci mai a trovarti per organizzare una cena, anche se entrambi lo volete moltissimo. Questa volta ci siamo presi in anticipo. Ed è stato bellissimo, ci fidavamo di lui. Avevamo già una pre-produzione molto studiata e precisa, con i pezzi già registrati. Siamo proprio andati da lui dicendogli "Ok, adesso devi batterli come abbiamo fatto noi". E ovviamente lo ha fatto. È stato un mese molto bello. La cosa bella della musica è che puoi suonare pezzi come "Crateri" e mentre lo fai comunque ridi, perché è un mestiere che si può – e che si dovrebbe - fare ridendo.
Nei crediti del disco figura anche il Quartetto di Torino, che non immagino esattamente come dei musicisti uguali a voi. Com'è stato il lavoro insieme a loro?
Bellissima domanda. Quello è stato bellissimo. In questo caso abbiamo parlato con Stefano Nanni, che si è occupato di arrangiare parte degli archi. Un arrangiatore poi collabora con un quartetto, no? I membri del Quartetto di Torino sono persone fra i quaranta e i sessant'anni, tutti dei veri personaggi. Il modo di interagire tra loro era bellissimo, proprio di altri tempi. Della serie, loro con lui davanti che diceva: "Salve signori, vi ringrazio moltissimo di essere venuti, siamo qui per questo album molto energico, mi è piaciuto moltissimo scrivere queste cose, vorrei che le suonaste così, vi ringrazio tantissimo...". Ma tutto questo per niente ipocrita, con un rispetto davvero sentito e bello. Dopo eravamo lì a berci le bottiglie di bianco, ma comunque come faresti con quegli amici con cui passi tanto tempo, ma verso i quali sei ancora super gentile, a cui chiedi per favore se ti devono passare il sale. Ci sentivamo davvero onorati. Oltre al fatto che ovviamente spaccano il culo. Alla seconda lettura delle parti, l'esecuzione era già clamorosa.
Per il video di “Le vite degli altri” avete scelto un set particolare, la Bulgaria. A parte avere una fotografia molto bella, attraverso i due protagonisti il video trasmette una certa purezza. Com’è nato e perché avete scelto una location così poco consueta?
Questo è un punto di cui ci siamo accorti quando quasi avevamo il video in mano. Penso che quello che si sa oggi in Italia sulla Bulgaria sia lo stesso che si sapeva di quella porzione di terra nel 1650. Se chiedi a chiunque qualcosa a proposito della Bulgaria, al massimo ti citano un giocatore di calcio del ’91, quando la Bulgaria era ancora un po' forte. Questo è particolarissimo e ci è piaciuto, visto che in qualche modo i video devono avere un senso di esistere. Il monumento che si vede alla fine del video si chiama Buzludzha, avevamo in testa da almeno cinque anni e tre dischi di voler fare qualcosa che c’entrasse con quel monumento. È un po’ come se la nostalgia fosse un prodotto tipico dell’Est, anche in Italia già quando arrivo verso Trieste mi sembra che il tramonto sia diverso. Per il grande caso della vita, anche se programmi ogni cosa poi va tutto in un’altra maniera, ma in questa circostanza per realizzare il video abbiamo scelto Martina Pastori, che poi lo ha realizzato insieme ad Anna Adamo. Martina ci ha lanciato l'idea della Bulgaria, monumento compreso, pensando anche all’orgoglio e alla fierezza raccontate nella canzone, anche se ovviamente nelle nostre teste non era ambientata in Bulgaria. E ha incontrato i protagonisti del video, Dennis e Kostadin, semplicemente per strada. La purezza è data prima di tutto dal fatto che loro non sono attori né niente del genere, sono stati sostanzialmente loro stessi, andando anche a trovare un loro amico al cimitero, vedi la lapide del finale. Prima si parlava male dei social, come fossero una cosa che non può essere usata in altro modo: è stato bello al lancio del disco coinvolgerli anche via social, loro erano gasatissimi. È bella questa cosa di unirsi un po’ più con il mondo, credo ancora che la forza totale di Internet debba essere questa.
Non so se solitamente tu legga i commenti sotto ai vostri video, ne ho trovato uno molto bello in cui un ragazzo racconta di aver lasciato la vostra maglietta de "I soldi sono finiti" a Stara Zagora, ad una ragazza originaria di lì conosciuta in Erasmus.
L'ho visto. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con quelle terre ci hanno scritto attraverso qualsiasi canale. Perché comunque abbiamo così tanto mondo a disposizione e ne raccontiamo così poco.
Siete apparsi sulla scena musicale nel 2006 come band rock. Nel 2018 tornate con un lavoro che ancora una volta è rock, ma i cui temi chiaramente hanno come voi un’età anagrafica diversa. Cos’è successo al vostro pubblico nel frattempo? È cresciuto con voi?
La grande scoperta dello scorso tour è che è avvenuto un fortissimo ricambio. Abbiamo avuto tutta una serie di nuove persone nelle prime file, ragazzi che poi in alcuni casi ci hanno seguito per tantissime date. Fra i 20 e i 25 comunque, ascoltatori che al primo disco evidentemente avevano 10 anni. Poi ci sono un sacco di vecchie guardie fedelissime, che magari non riescono più a venire a tutti i concerti, ma ci scrivono che hanno scritto una nostra frase sulle fedi che si sono scambiati al matrimonio, e così via. Ci sono storie emozionanti che ogni tanto ci scrivono, che riguardano anche i figli o molto spesso momenti brutti superati. Ovviamente è bellissimo se continua così. Ci sono aspetti imprevedibili del pubblico, e meno male. Perché in fondo noi facciamo canzoni che sono studiate rispetto a melodie, arrangiamenti, magari anche tempi interni del pezzo. Però il contenuto di partenza non lo è mai, dipende da quello che ci sta accadendo. Se è un grido d’aiuto, per quanto vanitoso possa essere, è pur sempre un grido d’aiuto. Non è che ci sediamo e scriviamo il pezzo rock. Non esiste una cosa del genere, non sapremmo neanche come farla. Ci metteremmo a ridere, probabilmente.
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L'articolo Il pericoloso desiderio di fidarsi: ascolta il nuovo album dei Ministri e leggi l'intervista di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2018-03-09 10:30:00
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