Puro magnetismo sonoro, a rilascio graduale, che fa dello smeraldino crepuscolo e del turbolento misticismo i suoi più taumaturgici principi attivi.
In un certo senso tutti i lavori dei Melampus sono caratterizzati da un puntuale crescendo concettuale e compositivo che procede per accumulazione di prospettive, come in una sorta di progressiva raffinazione di un lievito madre che rimane tuttavia immutato nelle sue caratteristiche organolettiche. Se, infatti, il loro ultimo disco,“N°7”, interiorizzava – e magistralmente intellettualizzava – quanto di buono il duo felsineo aveva già fatto con l’opera prima “Ode Road” in questo “Hexagon Garden” si distillano le essenze migliori dei precedenti – perché del passato non si getta via nulla – per pavimentare nuove vie di fuga creative che, a questo giro, sconfinano in una più ambiziosa sperimentazione psico-acustica che fa del field recording e dell’interazione analogico/digitale il proprio valore aggiunto.
Se, dunque, il cuore pulsante delle elucubrazioni elettro-ambientali di Francesca Pizzo e Angelo Casarrubia continua ad essere la scenografica oscurità delle origini è anche vero che all’interno del “giardino esagonale” quest’ultima si veste di nuovi punti luce e si trasforma in multi-cromatica spiritualità dalle (neanche tanto velate) trasfigurazioni rituali, come, del resto, le piume in copertina stanno graficamente a simboleggiare (i richiami agli Indiani Zuni e ai nativi Irochesi sono illuminanti).
Tradotto in musica: la comunione d’intenti creativi (e comunicativi) dei due autori si fortifica oltremodo e si compie finalisticamente all’interno di uno straniante chitarrismo cerimoniale e una fascinosa vocalità che, a tratti, sfiora l’esoterismo; entrambi esaltati da un’alchemica membrana elettronica – intrisa di darkwave, slow motion bristoliani, registrazioni ambientali e rumorismi sparsi – e da ritmiche minimal-ossessive che trasudano nera solitudine.
Da questa misteriosa penombra tridimensionale, dunque, risale un flusso di meditazioni esistenziali (talune, all’apparenza, molto sofferte) che gradatamente si dissolve all’interno di un sonico non-luogo dove corvine psichedelie siouxsiane (“Poor devil” e “Sun”) finiscono per impattare l’arcana ritualità dei Dead Can Dance (“Second soul”, “Question #3”, “Pale blue gemstone”) o dove il fantasma di una Laurie Anderson insolitamente liturgica (“Worthy”) riesce a banchettare con una P.J. Harvey ammantata di luciferina tribalità (“Simple man”).
Tutto il resto è puro magnetismo sonoro, a rilascio graduale, che fa dello smeraldino crepuscolo e del turbolento misticismo i suoi più taumaturgici principi attivi.
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La recensione Hexagon Garden di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-02-16 08:00:00
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