Sono la band più osannata e criticata degli ultimi anni, capace di infilare sold-out in ogni città e di attirarsi antipatie con la stessa scioltezza. Poche ore prima del loro live all'Alcatraz di Milano, abbiamo fatto una chiacchierata con Lodo Guenzi e Alberto 'Bebo' Guidetti dello Stato Sociale. Intervista di Marco Villa, foto di Starfooker.
Parto con una cosa leggera. Riuscite a ricordarvi dove eravate l'anno scorso, due anni fa e tre anni fa?
Lodo: L’anno scorso eravamo nelle lunghissime registrazione de “L’Italia peggiore”. Eravamo convinti di essere già a buon punto. Poi un giorno a gennaio il disco era finito e il giorno dopo era a metà.
Bebo: Due anni fa secondo me eravamo alla Flog a Firenze. Una data memorabile, il primo tour nei club con un biglietto d’ingresso. Tre anni fa invece eravamo a Eboli.
Lodo: Giusto, Eboli. Il 4 novembre c’era stato il primo concerto veramente grosso all’Angelo Mai. Ci pagarono 500 euro e Albi, il nostro bassista, voleva ridarglieli perché era imbarazzato: “Ma no, dai, teneteli”.
Oggi invece è il 6 novembre 2014 e tra un paio d’ore sarete sul palco grande dell’Alcatraz, un palco su cui hanno suonato pochissimi musicisti della vostra generazione. Vi siete spiegati come siate riusciti ad arrivarci, perché il vostro pubblico sia cresciuto così tanto?
B: Mah, è qualcosa di misterioso. Così come non riesco a giustificare a me stesso i miei gusti, così trovo altrettanto ingiustificabile che qualcosa che facciamo noi possa piacere agli altri. Probabilmente ci sono dei tratti che riescono a essere trasversali e quindi non è solo una questione di musica al 100%. Forse in campo c’è qualcosa di più umano, ecco. Forse il nostro scarto, la nostra qualità principale è quella. Le canzoni fanno l’80%, però c’è un 20% che forse ha a che fare con l’indefinito umano.
L: Non sono un esperto di fenomeni culturali. L’abilità principale che abbiamo è che in questo momento siamo i più bravi a far succedere le cose per caso. Far succedere le cose per caso nel senso di creare situazioni nelle quali succedono delle cose improbabili, ma che in realtà sono quelle che stavi aspettando. Non è una cosa che decidiamo noi, noi decidiamo di provare un gioco abbastanza sottile di abbattimento della barriera tra palco e pubblico. Se prendi il tuo compagno di classe o il tuo amico simpatico al bar e lo metti davanti a mille persone diventa antipatico. Noi invece vogliamo riuscire a fare quella cosa lì, tentando anche di essere un collettivo. Non so se questa è la chiave del nostro successo, ma senz’altro ci caratterizza. Non sono sicuro che i collettivi siano più vincenti delle individualità forti, però lo spero, perché mi piacciono di più.
Da una parte il pubblico sempre più grande, dall’altra le critiche sempre più dure. Non ricordo di altre band che abbiano polarizzato così i giudizi. Come ve lo spiegate?
L: Credo ci sia qualcosa di irritante nel nostro non essere mai esattamente al posto nel quale vorresti trovarci. In certi momenti siamo il villaggio turistico e la cosa demenziale, in certi momenti siamo il discorso politico, in certi momenti siamo la canzone sentimentale e in altri momenti pensi che sia il movimento. Però non siamo mai né Fiorello, né i Modena City Ramblers, né De Gregori. Far succedere le cose per caso, nel momento in cui uno deve agire con le categorie mentali è una cosa che mette in difficoltà e che è anche fortunatamente irritante. Fortunatamente, nel senso che non riesco a chiudere questa cosa in un recinto. Il nostro gioco è proprio provare a non stare in un recinto: da certi punti di vista anche la musica in quanto tale la viviamo un po’ come un recinto.
La prima volta che vi ho visti dal vivo, ad aprile 2012, ho visto un concerto normale, standard. Poi nel corso dei mesi e degli anni successivi siete andati sempre di più verso qualcosa di indefinito, pieno di interminabili intermezzi parlati. È stata una cosa voluta o è venuta naturalmente?
L: È il percorso progressivo dal grande sbrodolamento, un percorso in cui ci sono canzoni da 25 minuti con improvvisazioni e cazzate e anche una forma un po’ più concerto che è la media delle cose che hai visto anche tu e che è quello verso cui stiamo andando, anche purtroppo sotto un certo punto di vista. C’è stata un’eccezione ed è il tour estivo del 2012. Sapevamo che di lì a poco avremmo fatto il primo tour nei club con biglietto e abbiamo fatto una cosa differente rispetto al solito. Noi siamo estremamente talebani sulla costruzione degli spettacoli, ci prendiamo ore e ore di pensiero, brainstorming, cazzate, ma in quella occasione ci siamo detti: “Rega, all’improvviso abbiamo un pubblico, fra un po’ dovremo pure far pagare un biglietto, quindi dovremo inventarci uno spettacolo degno di questo nome. Questi 3 mesi giochiamoceli mandandola in vacca“. Poi c’è la sera fortunata in cui la mandi in vacca e ti vengono delle genialate e la sera in cui sei una palla al cazzo infinita, con il concerto che non finisce più. Però all’interno della ricerca degli elementi per lo spettacolo è stato fondamentale mandare tutto in vacca in quei tre mesi lì.
Il vostro primo album l’ho ascoltato parecchio. All’inizio non mi era piaciuto, poi mi ha divertito, poi non sono più riuscito ad ascoltarlo.
L: Un percorso digestivo.
Più o meno. Però comunque per un po’ mi aveva divertito. Il disco nuovo, invece, non l’ha fatto per niente e, come ho scritto nella recensione, la cosa che mi è dispiaciuta di più è stata la sensazione che siate andati troppo sul sicuro, senza rischiare nulla. E questa cosa cozza tantissimo con quello che mi avete appena detto sul “mandare tutto in vacca”. Insomma: rischiate davvero oppure no?
B: Quando diciamo che cerchiamo di uscire sempre dal recinto, parliamo di una delle possibilità che ci si parano davanti. Però dobbiamo anche rispondere a un’esigenza: potevamo fare un disco completamente a cazzo di cane, ma avremmo venduto una copia e non saremmo stati qui a parlare. Bisogna avere rispetto per le persone che ti seguono e allo stesso tempo indipendenza da loro per fare quello che ti piace, per cercare poi una quadratura che sia dignitosa e rispettosa della tua etica lavorativa. Il secondo disco non era il luogo in cui spingere su certe cose. Secondo me ci sono esperimenti coraggiosi e i live ce l’hanno confermato. Ci sono canzoni come “Il sulografo e la principessa” che - esattamente come “Ladro di cuori col bruco” - sono viaggi elettronici che lasciano il pubblico a bocca aperta. Poi fai la canzonetta e tutti gridano “yeeee!”. Con “Te per canzone una scritto ho” ci inventiamo di nuovo il teatro, è un pezzo molto riuscito che va da un’altra parte rispetto ai nostri canoni abituali. Non puoi godere della libertà come mancanza di limitazione o di interlocutori: il limite è una sfida. A qualcuno ti devi rivolgere oltre che a te stesso, perché altrimenti va a finire che esce una manfrina che non serve a niente, quindi devi riuscire a portare piano piano il tuo discorso. Calcoliamo sempre che è un secondo disco, noi non siamo i Pink Floyd e non facciamo nemmeno musica che ci permetta di rischiare più di tanto dal punto di vista della costruzione. Piano piano si costruirà sempre di più un’eterogeneità all’interno del disco, ma stavolta volevamo anche formare in modo forte la nostra cifra stilistica, dire “Oh, rega, ‘sta roba qua la facciamo noi e gli altri vaffanculo”.
Quindi l’album è uscito esattamente come volevate?
B: Sì, certo.
L: Sì, è comunque un momento di transizione e l’Italia è un paese in cui ci sono molti fraintendimenti, perché è un paese dicotomico, in cui bisogna dividere le cose in bene e male, che sono due categorie che non servono. Negli anni ‘70, quando c’erano le avanguardie di teatro che hanno poi portato ai percorsi di ricerca di nomi come Julian Beck o Grotowski, il teatro era diviso in due: c’era l’intrattenimento, ovvero l’avanspettacolo, il cabaret, la commedia o un certo tipo di teatro classico e c’era la ricerca, ovvero uno solo dentro una stanza che faceva versi per 20 minuti, con un pubblico di quindici persone che andavano via dicendo: “È interessante”. Io non credo all’esistenza di alto e basso, perché, come dice Peter Brook, ci sono semplicemente due tipi di teatro: un teatro vivo e un teatro morto. Se tu fai una cosa viva, porti una tua idea personale di ricerca non perché sei un genio, ma perché ti poni il problema di fare canzoni e spettacoli portando con te degli interlocutori. Il motivo per cui “L’Italia peggiore” è questo tipo di disco è anche per una necessità nostra di rafforzare un rapporto con un interlocutore, che poi in certi momenti proviamo a portare da un’altra parte e magari domani proviamo a portare ancora più in là. Ma forse non ci sentivamo pronti.
Questo passo avanti vi viene naturale tentarlo nei live, giusto?
B: Il live è un liquido, il disco è un oggetto tondo che metti in un lettore.
Ok, però tante band fanno il tour classico e poi magari si chiudono due mesi in studio e sperimentano di tutto...
B: Ma noi ci rompiamo i coglioni! (ridono, NdR)
L: Poi magari un giorno lo facciamo anche. In questo momento ci veniva più da dire “bene noi facciamo questa cosa qua, venite con noi e proviamo a portarvi sempre più in là”. Le cose che stiamo scribacchiando adesso secondo me sono già da un’altra parte, anche per le tematiche.
B: Ad esempio noi nei concerti siamo degli sbrodoloni, dei logorroici, ci piace prendere per il culo la gente e farci prendere per il culo dopo ogni canzone, ma in questo tour abbiamo deciso di non dire niente per i primi quattro pezzi. E facciamo una fatica incredibile, la cosa che abbiamo ripetuto più volte durante le prove è stata proprio: “Zitti!”. È il nostro modo di cercare cose nuove, la nostra piccola ricerca.
Visto che prima hai citato gli anni ‘70, ti faccio una domanda molto anni ‘70: passare continuamente da un registro demenziale a uno impegnato, non rischia di banalizzare il discorso serio?
L: Io ho visto degli spettacoli in cui ridevo per 50 minuti, all’ultimo minuto mi dicevano una cosa importante e questa cosa me la ricordo ancora. Proprio come costruzione è una cosa che su di me agisce con grande efficacia. A volte le persone hanno bisogno di vedere le cose sottolineate con l’evidenziatore, cioè se c’è il cantautore che fa una canzone con la chitarra allora questa è la cosa seria, c’è il gruppo da ballare allora sto ballando. Il nostro tentativo è creare uno scontro vivo, di far succedere qualcosa: uno può anche dire: “Mi fa schifo”, ma lo dice perché qualcosa succede.
B: Nel concerto, l’unico momento in cui apro bocca da protagonista parlo alla gente della Strage di Bologna. Nel pezzo prima stavamo parlando di Lodo e delle sue avventure, il pezzo dopo è “Questo è un grande paese”. Il divertimento non nega il pensiero e il pensiero non può negare il divertimento. Per me è fantastico vedere gente che si dimena e balla dopo che per un minuto e mezzo Lodo ha detto che ci siamo rotti il cazzo. È un atto edonistico meraviglioso e non c’è cosa più bella che ridere in faccia alle cose serie. Una roba così non succede perché sei una scimmietta ammaestrata, ma perché hai fatto un tuo percorso, hai raggiunto un livello di tensione e in quel momento devi farlo esplodere. Secondo me rimanere sempre su un livello solo è noioso ed è già stato fatto, è bello mettere assieme le cose.
Il primo singolo di Fedez “Generazione Boh” potrebbe essere un vostro pezzo stile “Questo è un grande paese”: ci sono i giochi di parole, le battute, qualche frecciata più sociale. Cosa ne pensate del suo brano e di questo accostamento?
L: No, io non l’ho sentita. Onestamente lui mi sta molto simpatico, al di là che su alcune cose è evidentemente una zappa, così come io sono una zappa per altre. Credo che “Questo è un grande paese” sia un pezzo molto, molto al limite della trashata e non ho ancora capito se lo è veramente o se invece ci siamo fermati un passo prima. Comunque non è un problema che mi tormenta, perché l’obiettivo di “Grande paese” non sono i quattro-cinque misfatti che vagamente cita, ma è proprio la chiacchiera da bar, parla proprio di coloro che hanno in bocca quelle parole, se proprio dobbiamo farla didascalica.
B: Nemmeno io l’ho sentita, ma elegantemente mi fido di te e dico che è una cosa importante che uno come Fedez, che è anche abbastanza trasversale, si metta a parlare - dico una cosa terribile - la lingua della gente. Ben venga, cazzo: abbiamo smesso di parlare di bamba e mignotte, tanto sono ovunque e tutti abbiamo non più di un grado di separazione da queste cose.
L: Che comunque sembra siano ovunque, ma oggi siamo sul palco grande dell’Alcatraz e non si vede niente di tutto questo (ridono, NdR). In realtà Fedez è stato bravissimo a crearsi una campagna promozionale facendo dissing con i politici. Ci dicono sempre che siamo furbissimi in queste cose, ma ai politici non abbiamo mai nemmeno pensato.
L’ultima domanda non può che essere marzulliana: dove sarete tra un anno?
L: In vacanza
B: Sì, l’idea è quella di prendersi un po’ di vacanza, ma tra un anno. Fino all’autunno prossimo saremo un po’ in mezzo ai maroni a tutti.
E dicevate che state già iniziando a scrivere qualcosa?
L: Sì, però abbiamo deciso di farlo con i nostri tempi. Forse questo album l’abbiamo fatto con un po’ di fretta e il prossimo disco lo faremo quando avremo tutte le canzoni e quando andrà a noi. Con questo avevamo comunque una scadenza, con il prossimo no.
B: Califfi. Il prossimo è da califfi, anche se non mettere scadenze a gente come noi può voler dire che non ci sentirai mai più.
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L'articolo Lo Stato Sociale - Per fortuna siamo irritanti di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2014-11-11 14:56:00
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