All’improvviso
è arrivato il futuro
INTERVISTA Nur al Habash e Marco VillaFOTO Ilaria Magliocchetti Lombi
Negli ultimi anni ho fatto tanti viaggi, e spesso quelli in cui mi sono spostato di pochi chilometri hanno avuto la stessa importanza di quelli che mi hanno portato lontanissimo. In generale non li programmo per ricavarne delle canzoni, anzi penso che da molti viaggi non sia uscito niente. Però è vero che tra quelli più importanti e influenti ci sono quelli che faccio per reazione al lavoro, andando nei posti più sperduti del mondo, in mezzo alla natura, a camminare sui vulcani. Posti dove non succede niente e non ti arriva quell’attualità che si aggiorna ogni cinque minuti. Posti in cui non dovrebbe succedere nulla e invece poi ti accorgi che proprio lì accadono le cose. Percepisci di più l’esistenza, il motivo per cui sei al mondo, che è sempre quello di rivelarsi e mai nascondersi.
Siamo sempre assediati dalla cronaca nera usata come intrattenimento. Il mio metodo di lavoro è legato al non essere aggiornati su quello che accade nell’attualità, anche se so che è una cosa impopolare da dire. Credo che l’attualità non sia importante. Parlo dell’attualità della settimana, dell’ultima ora, che mette lo stesso accento sulle atrocità e sulle cazzate più assolute, e che ho deciso di ignorare come autodisciplina.
Nel disco però sono finite delle tematiche che non mi aspettavo uscissero, anche altisonanti se vuoi: attentati, migrazioni, o al contrario cose più intime legate a viaggi recenti o anche di dieci anni prima. C’erano una serie di fatti successi nel mondo negli ultimi anni che pensavo non mi avessero toccato veramente, cose che sotto sotto non pensavo mi riguardassero granché. Se devo essere spietato verso me stesso, posso dire anche che non mi interessassero del tutto. Invece scrivendo mi sono accorto che uscivano, e che andavano anche in contraddizione con alcune mie convinzioni. Ad esempio ho sempre pensato che quello che vivi e conosci in maniera mediata non è una vera esperienza. Invece mi sono accorto che anche fatti di cronaca che ho vissuto in modo mediato mi hanno toccato particolarmente. In questo senso nel disco si sono mischiate tante cose, e su piani diversi che non mi aspettavo.
“Terra”Quello che ho detto è controverso, ma credo sia importante riuscire a distinguere la cronaca che diventa intrattenimento dalla vera informazione, che magari passa dalla lettura approfondita di un libro o di un saggio su quell'argomento. Per il resto, credo di reagire come tutti alle scene che vediamo. Come esseri umani non siamo in grado di farci carico di tutto il male del mondo. E ci sentiamo quasi in colpa per il fatto di non poter essere informati su tutto, per non poter sapere fino in fondo cosa sta facendo l’ISIS. Però dobbiamo accettare il fatto che non siamo in grado di reggere tutto questo. Abbiamo un sistema immunitario che ci permette di poter scegliere di affrontare quello che arriva nel nostro campo di consapevolezza, senza dover tornare a casa la sera e poi farsi bersagliare di nuovo. L’unica cosa che possiamo fare per non sentirci frustrati di fronte a quello che succede nel mondo è comportarci dignitosamente con noi stessi e con gli altri, non essere travolti da tutto il resto. Essere informati non cambia niente, è meglio avere la mente più libera e scegliere attentamente le cose da fare invece di farle con compulsione.
Scrivere un pezzo come “Waltz degli scafisti” è il mio modo di sublimare la cronaca: le canzoni hanno la capacità di esprimere dubbi e pene e poi di liberartene. Io ho cercato di vederla in modo ampio e di ribaltare i punti di vista su vittima e carnefice: penso sia delirante che le accuse dell’Occidente si riversino unicamente sul povero cristo che sta lì a dare gas al motore di una barca, per quanto sia un criminale. In realtà poi leggendo i reportage si scopre che spesso sono le comunità intere di un villaggio che si organizzano e guidano queste barche a turno. “Waltz degli scafisti” parla di città cinesi in Africa, città italiane in Argentina e città indiane in Australia. Parla di viaggi e migrazioni che sono sempre accadute nella storia dell’uomo, in ogni direzione e da qualsiasi punto. Storie di dolore e di coraggio. È il mio modo per cercare di rimettere in ordine le cose, per quanto siano cose che di certo non si possono risolvere con una canzone. Il ritornello è pensato come un coro cantato dalle persone che si trovano sulla barca e osservano questo scafista che segue le stelle. Nulla toglie che tra vent’anni al posto loro ci saranno gli italiani che dovranno spostarsi in qualche paese limitrofo per colpa di un’esplosione nucleare. È sempre successo che a un certo punto le persone debbano prendere e andarsene da dove abitano. Le dipingiamo come vittime, quando in realtà hanno un coraggio e una voglia di vivere nemmeno paragonabile alle nostre. Nella canzone dicono che le loro storie sono troppo belle e non possiamo cercare di capirle.
“Ho buttato via canzoni molto buone, è stato micidiale doverle togliere”
Quando avevo 18 anni sono stato in Bosnia, in luoghi dove c’era stata la guerra qualche anno prima, dove ogni sputo di prato era un cimitero e tutti i ragazzi erano senza famiglia. Per certi versi io questi ragazzi non li capivo. Dicevano di essere contrari all’idea della memoria e dei monumenti ai caduti, perché era il momento di vivere il presente, ricostruire case e scuole e non guardarsi più indietro. Se ci pensi sono cose enormi: dei ragazzini di 18 anni che si sono trovati addosso la responsabilità di ricostruire delle città, delle strutture, dei palazzi. Per poter ricominciare dovevano riprendere a vivere al 100% il presente e dimenticare il passato. Noi camminavamo tra le rovine e ed era impossibile capire se fossero di un minareto o di un campanile. L’unica cosa che c’erano erano alberi giovani che crescevano indisturbati tra queste rovine, alberi di 15 o 16 anni, ovvero gli anni che erano passati dalla fine della guerra.
PerchéSono contentissimo, sei la prima persona che me lo dice ed è quello che in fondo volevo. È quello che amo di Ferretti o Battiato per esempio, sono voci che hanno a che vedere con l’eternità.
Quel verso che citi è contenuto in “Iperconnessi”, un pezzo in cui parlo della rete; ho cercato di affrontare questo reportage in forma di canzone leggendo tutti gli articoli, i libri di filosofi e sociologi che hanno trattato questo argomento per poi ricondurre tutto ad un tema di base per l’umanità: siamo al mondo per rivelarci e non per nasconderci. Fino a qualche anno fa sembrava che fosse più interessante e fico criticare invece di creare. Usare la rete per stare asserragliato da una parte e non combinare niente. Vent’anni è l’età in cui tutti hanno fatto le rivoluzioni. Se guardi a tutti i rivoluzionari della storia avevano quasi sempre vent’anni o giù di lì. Se ci penso ora che io ne ho più di 30 mi rendo conto che erano praticamente dei bambini. Insomma, la tematica di base è quella lì: cosa stiamo qua a fare? A fare le battutine? Hai fatto 10 anni di battutine, hai avuto un po’ di approvazione, e ora? Siamo qua per sbaglio, e secondo me siamo qua per rivelare quello che abbiamo.
Sì, perché rivelarsi è molto diverso dal tipo di trasparenza che ci viene imposta dalla rete, in cui sembra che tu abbia qualcosa da nascondere nel momento in cui non esponi tutti i tuoi segreti in fila. Quella cosa lì è una perversione. Per rivelarsi non bisogna rivelare le cazzatine che si fanno nella vita di tutti i giorni.
Mi viene in mente un altro dei personaggi guida che c’è nel disco, che è Grotowski. Negli ultimi 10 anni della sua carriera teatrale ha addirittura smesso completamente di fare spettacolo per dedicarsi solo al lavoro di training. Perché lui vedeva il teatro e l’arte in generale come un mezzo per rivelarsi, per toccare delle cose più profonde che non si esauriscono nello spettacolo in sé. Quello lì è un modo fortissimo di rivelarsi, che non ha niente a che vedere con l’esporsi.
È qualcosa che secondo me si ricollega a una forma di realizzazione personale diversa dal mito della realizzazione lavorativa. Grotowski parla di lavorare con la libertà. Ma libertà non vuol dire fare qualsiasi cosa a caso, è essere come si è. E si deve poter essere timidi, o riflessivi, indipendentemente da quello che i meccanismi della rete ci spingono a fare. Quello è un rivelare se stessi nel modo in cui si è. Non fare finta perché in questo momento bisogna avere la risposta veloce, la battutina sarcastica, o farsi le foto in continuazione.
In realtà questo è un disco sul presente. Quando canto quelle frasi voglio sottolineare come l’idea di futuro sia un’illusione, perché è qui adesso nel presente. “Nel profondo Veneto” è una canzone sul crollo delle illusioni e su quanto questo possa essere benefico. Uscire da questa corsa senza senso e senza fine verso il futuro, di obiettivo in obiettivo. Non esiste quella cosa lì. Non c’è, è una specie di miraggio il futuro. Il disco si chiama “Terra” anche perché è l’accettazione della realtà di quello che c’è.
Il tonoCazzo è vero, non ci avevo pensato, è proprio così (ride). Nella storia di “Nel profondo Veneto” lei torna a casa sconfitta e contenta. È la storia di una resa davanti la pretesa di realizzare l’impossibile. Che poi non è nemmeno un’impossibile che scegli tu, è un’impossibile che ci viene quasi imposto dalla società. Paradossalmente puoi anche realizzare qualcosa, ma poi quando ce la fai ti dici “ok, e ora?”. È una banalità, ma provarla sulla propria pelle è salutare. Io devo dire che ho avuto la fortuna di realizzare un bel po’ di obiettivi che mi ero posto, compreso visitare un sacco di luoghi che avrei voluto scoprire, e capire com’era viverci. Alla fine raggiungere questi luoghi e obiettivi mi è servito per ridimensionarli, e questo mi ha fatto stare molto bene. Mi ha fatto capire anche che stare a Ferrara a fare quello che faccio va benissimo. Cosa importava la meta se poi consisteva comunque nel camminare piano, nell’arrivarci?
Effettivamente è stato un gioco. Io avevo portato un demo chitarra e voce ma avevo chiesto a Federico Dragogna (dei Ministri, che ha prodotto il disco, ndr) di provare ad inventare qualcosa di interessante. E così lui ha pensato di farlo diventare un pezzo africano e ha tirato fuori tutti quei tamburi e cori. Mi ricordo che ci è sembrato naturale. Conosco abbastanza bene quei posti, ci sono delle comunità africane vastissime, molto colorate. E questo concetto fa parte dell’idea del disco: credo che la colonna sonora di quei posti lì sia cambiata, non è la musica veneta che ci ricordavamo. Per le strade si sente sicuramente più musica africana, che è finita per diventare musica veneta. L’ultimo pezzo del disco, “Viaggi disorganizzati”, sembra una canzone di musica balcanica ma nella mia testa è musica ferrarese, perché la colonna sonora di Ferrara dell’ultimo anno è balcanica. Gli unici che suonano per strada e hanno il coraggio di farlo sono queste band tra i 6 e gli 86 anni di Rom, con le fisarmoniche e i fiati. Quella è la musica che si sente nell’aria, quella è la musica folk di Ferrara di adesso. È un pezzo di musica ferrarese quello con cui chiudo il disco.
Ho ragionato sul canto come espressione stranissima degli esseri umani. Ho lavorato molto sulla musica. Siamo partiti quasi sempre da delle parti musicali già definite, e anche le parole ho cercato di pensarle come uno strumento musicale, uno strumento ritmico, come fossero una batteria. Abbiamo cercato di fare un disco che suonasse semplice, per quanto sia bene arrangiato e molto complicato. Durante le registrazioni dicevo sempre ai ragazzi che avevamo bisogno di ritmica, melodia e armonia. Di base avevamo bisogno di tre strumenti, ne stavamo usando 100 e non andava bene. Cominciava ad esserci del fumo in mezzo, invece per me doveva essere tutto molto “in faccia”, e credo che questo meccanismo abbia portato anche la voce ad essere uno degli strumenti principali. A quel punto le parole poi volavano. Ho sottratto moltissimo dai testi così che passasse un messaggio forte e chiaro. Ho buttato via canzoni molto buone per me, è stato micidiale doverle togliere ma indispensabile.
A propositoAvevo in mente un suono diverso dal precedente album ma sapevo che avrei potuto svilupparlo sempre con lui. Per “Costellazioni” mi sono rivolto a Federico quando avevo già pronto tutto, su questo invece abbiamo lavorato assieme sin da subito. Gli avevo dato quest’idea di un disco che fosse un po’ una cartolina da spedire nello spazio, dove nessuno sa niente del posto da cui arriva, e che quindi doveva descrivere alla perfezione me stesso e i miei luoghi. Lui è bravissimo, il migliore produttore artistico che si possa avere, ha un grande talento. Abbiamo capito era importante che questo disco fosse pieno di ritmo perché vedevo che da subito lo riempiva di vita, e quindi abbiamo chiesto a Daniel Plentz, che è il percussionista dei Selton, di darci una mano. Lui è stato fondamentale perché ci ha fatto uscire da certi schemi, miei e di Federico, che ci tenevano legati al rock, al punk, al grunge, che poi è la roba con cui siamo cresciuti. A Daniel invece portavo un pezzo grunge urlato e lui lo faceva diventare un flamenco (ride), gli veniva in automatico, anzi faceva più fatica a fare un 4/4 dritto. Questo ha sicuramente aiutato a portare il disco da un’altra parte.
(ride) Di solito improvviso a seconda della situazione però sì, sarà una sorta di rito liberatorio. Non vedo l’ora.
In realtà aiuta molto il ridurre le possibilità. Ho scoperto questa cosa da Giorgio Canali quando ho iniziato a suonare: adesso con i computer e tutti gli altri strumenti hai una mole infinita di scelte, invece bisogna farsi guidare dall’impossibilità di scelta. Nel momento in cui hai una batteria, una chitarra, un basso e un sintetizzatore, fai tutto con quello che hai. Bisogna fare un sacco di prove perché i pezzi devono stare in piedi benissimo, senza nessuna titubanza. E poi c’è la mia voce che li tiene assieme e li rende riconoscibili anche se sotto la ritmica o l'arrangiamento può prendere una direzione diversa.
Sì è vero, è una buona abitudine secondo me. È strano, a scuola ci hanno insegnato di tutto e non questo, che è una delle cose fondamentali per vivere. Abbiamo una mente strana, nel nostro dna occidentale c’è questo senso di essere perennemente inseguiti da dei cani immaginari (ride). Se ci pensiamo siamo costantemente concentrati non su quello che va bene, ma sui problemi da risolvere. Se c’è qualcosa che va bene non lo consideriamo degno di attenzione. Invece tutto quello che non funziona è quello che prende il 100% delle nostre energie. Poi so che è difficilissimo andare contro questa abitudine. Sono cose che scrivo e che canto rivolgendomi anche a me stesso. Sono cose anche semplici da pensare e realizzare, però nessuno ce le ha mai veramente proposte.
(ride) Sarebbe impossibile, il mio problema è che riesco a fare le interviste una settimana ogni 4 anni...
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