24 Grana: storia di una band, della sua città e delle sue mille anime

Dopo sette anni di attesa il gruppo di Francesco Di Bella ritorna con un nuovo singolo e, si spera presto, un tour. Ripercorriamo assieme 25 anni di musica sempre diversa e sempre vitale

I 24 Grana, foto di Riccardo Piccirillo
I 24 Grana, foto di Riccardo Piccirillo

All’inizio di quest’anno i 24 Grana hanno annunciato che sarebbero tornati insieme sulle scene, dopo sette anni di pausa, con un singolo (con feat di Clementino) e un tour chiamati simbolicamente "A raccolta”. Sin da subito la notizia aveva risvegliato l’entusiasmo di due generazioni di fan, a dimostrare che c’è ancora voglia di 24 Grana. 

Forse c’entra il fatto che, mentre viene celebrato il ritorno di Napoli al centro delle rotte turistiche, dell’immaginario cinematografico e delle playlist musicali, il pensiero corre a chi in passato, quando il ‘brand Napoli’ era in molti casi una specie di marchio d’infamia, già aveva raccontato la complessità di Partenope, portando il suono fuori dai confini naturali: la canzone napoletana classica che aveva rapito il mondo, il Neapolitan Power degli anni ‘70, ma anche la Napoli underground dei centri sociali e delle posse.

È questo l’humus in cui affondano le radici i 24 Grana, e da cui ripartiranno in tour, con un percorso in cui dub e cantautorato, elettronica e alternative rock si sono intrecciati nel ritratto di una Napoli al tempo stesso antica e contemporanea.

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Gli esordi in levare e Loop

È il 1995 quando i Surrey Iron Railway di Francesco Di Bella, Renato Minale e Armando Cotugno cambiano nome nel più autoctono 24 Grana, una moneta di scarso valore del Regno di Napoli, e incontrano il chitarrista Giuseppe Fontanella. Il contesto è quello dei movimenti e di occupazioni come Loska e Officina 99, dove Francesco di Bella ci ha raccontato di aver vissuto quell’incontro fra le tammurriate operaie, il punk, il metal e il reggae che avrebbe caratterizzato il sound del gruppo.

Sono proprio i ritmi in levare a caratterizzare l’esordio del gruppo nel 1997, lanciandoli al fianco di Almamegretta e 99 Posse nella scena reggae/dub antagonista napoletana. Il suono di Loop è quello pulsante della metropoli, dub con inserti elettronici e incursioni di chitarre, ma è anche un racconto antico che guarda tanto ai suoni che arrivavano da Bristol quanto ad una Campania assolata e arcaica: la cover della tammurriata Vesuvio del Gruppo Operaio E’Zezi, la parole di Lu Cardillo, tratta da una canzone del ‘700, la Rivoluzione Partenopea in 1799 e la repressione in Patrie Galere, una lingua napoletana ‘studiata’ ma che permette di comunicare “con le frasi che si dicono in strada”. Per parlare come quando una cosa “‘a vulimme dicere o’veramente” , per raccontare storie senza tempo di vita vissuta nella città e della città.

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La svolta rock: Metaversus e K-Album

Due anni dopo arriva Metaversus, ed è tutta un’altra storia: il riff di Rappresento è la dichiarazione di intenti di un disco elettrico, viscerale, sputato fuori con un’urgenza da brividi. Un alternative rock mutante, innervato dalle radici reggae/dub e dall’intreccio tra le linee di chitarra ed un’elettronica cupa, uno spirito crossover simile a quello dei coevi Subsonica. C’è quel sentimento cyberpunk da fine millennio, l’ambigua utopia di un mondo digitale (Nel metaverso), ma anche il peso umano, troppo umano, di malinconie esistenziali e debolezze. Spettri come quello della dipendenza e della solitudine che abitano l’intensa parte centrale dell’album ed esplodono nel capolavoro del disco, Resto Acciso.

Epitaph sembra un finale, ma invece poi arriva un brano sognante, col sapore di una giornata “aller ‘mmiez a’via” e la compagnia ”’e 'na 10 'e niro”. Stai mai ccà diventerà un inno, grazie anche al video di Davide Toffolo, ed è il pezzo che anticipa i toni del successore di K-Album. L’album del 2001 è una sorta di concept atipico, in cui ricorrono costantemente la lettera "K" e soprattutto una particolare tinta emotiva: quel blu pallido che cola dalla cover e irrompe con dolce violenza anche nelle "kanzoni" più inquiete, ricoprendole di una sorta di speciale velo di malinconia napoletana, pucundria indie per il nuovo millennio. 

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Un mood agrodolce figlio soprattutto della chitarra di Peppe Fontanella, in bilico fra noise liquido e puliti brillanti, e della voce di Francesco, che ormai si muove in equilibrio fra l’irruenza sciamanica di Kanzoneanarkika e una visione personale della ballata romantica  (Kevlar, Kanzone doce). Musica da giorno di pioggia e canzone napoletana 2.0, sfuriate alternative, jam fattone, leggeri echi di dub e "kanzoni" ironiche rivoltate in indie rock esistenziale (l’inaspettata Kanzone del pisello); tutto galleggia in un’atmosfera languida, in cui si muove quasi con leggerezza il peso delle insicurezze, della solitudine, ancora una volta il canto disperato della repressione (Kanzone su un detenuto politico) e della dipendenza, squarciato da occasionali raggi di sole (E kose ka spakkano).

Per molti K-Album è una monografia sulla ketamina, ma è una visione limitante: in un periodo in cui la "K" era segno di un’alterità anche generazionale, nello slang quanto in musica (Kid A, dei Radiohead, K dei Kula Shaker). Di certo il terzo album dei 24 Grana è stato un disco che ha segnato una generazione, di napoletani ma non solo. 

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Underpop e Ghostwriters, la via napoletana al cantautorato

Tre album con tre anime così diverse e poi Underpop (2003), che si presenta fin dal titolo con l’intenzione di rallentare ed avvicinarsi ad una forma canzone che incorpora elementi acustici, e melodie dal sapore pop, con un piglio cantautoriale che addomestica l’anima elettrica e i ritmi in levare, sperimenta testi in italiano.

Di Underpop rimangono diverse ottime canzoni e almeno un classico della band, Canto pé nun suffrì, ma col senno di poi si tratta di un album di passaggio verso Ghostwriters. Nell’album del 2008 raggiunge l’apice la vena cantautorale e narrativa presente nella penna di Francesco fin dagli esordi. La ritroviamo qui da protagonista, sia in veste pop-rock, con Accireme, che è un instant classic e diventerà l’archetipo del cantautorato partenopeo degli anni successivi, sia nella reinvenzione della ballata napoletana di amore e guapparia, con l’amara Carcere e le sue rime di violenza, vendetta e corruzione.

Anche abbracciando un pop autoriale dal respiro nazionale, con la collaborazione dei fratelli Sinigallia e di Marina Rei, i 24 Grana non rinunciano ad espandere il mosaico di un racconto di Napoli al tempo stesso individuale e sociale, che anche quando ne riprende gli elementi tradizionali esce dalla dimensione dello stereotipo. Un elemento che ritroviamo in La stessa barca (2011), con Di Bella sempre più calato nel ruolo di cantastorie e narratore. Il suono, però, cambia di nuovo, elettrico ed essenziale nella produzione analogica dell’icona alternative Steve Albini.

Poi, nel 2013, il brusco addio di Francesco Di Bella e l’inizio di un periodo di separazione, in cui il cantante crea il progetto Ballads Cafè e pubblica due dischi da solista. Adesso i 24 Grana sono di nuovo ‘a raccolta’, e anche se in questo momento il loro tour è sotto l’ombra del Covid-19, come tutto il settore musicale, li aspettiamo il possibile per cantare tutti insieme, belli stretti sotto al palco.

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L'articolo 24 Grana: storia di una band, della sua città e delle sue mille anime di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2020-03-24 10:15:00

COMMENTI (1)

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  • Max70 2 anni fa Rispondi

    Grande Francesco grandi i 24 grana, grandi tutti, però volevo spezzare una lancia a favore del batterista metronomo puro!!!!!!!