Mi sono chiesto di cosa dovremmo scrivere ora. Quale slancio laterale potrebbe rendere accettabile, prima di tutto a noi stessi, lo scrivere di altro che non sia l’attualità che stiamo vivendo. Ho pensato così di lavorare a una serie di interviste che potessero farmi approdare in altri luoghi e in altre epoche. In ogni puntata di “Musiche per altri tempi” chiederò ad un ospite di Casa Verdi, la casa di riposo per cantanti e musicisti istituita da Giuseppe Verdi nel 1899 a Milano, di raccontarmi un disco dei suoi tempi. E quei suoi tempi
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Ada Mauri è nata nel 1950 a Milano. Ha iniziato a suonare il piano all’età di sette anni, «respiravo l’aria di casa, in cui tutti si diplomavano in pianoforte», mi racconta al telefono. Dal 1977 al 2010 è stata pianista nell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano. «Qui si va nella preistoria», dice quando le chiedo di raccontarmi un disco per lei importante. La preistoria è il 1983, anno in cui è uscito “Clarinettologia”, l’album di Gaspare Tirincanti, in quel periodo primo clarinetto della Scala. «Nel disco c’è una mia partecipazione, una sonatina di Nino Rota. Tirincanti era di Riccione, dove d’estate tornava per suonare anche musica d’intrattenimento. Faceva il liscio, il jazz, roba americana. Mi propose di trascorrere qualche giorno nella sua città, per andare in uno studio di registrazione. Era autunno, la madre di Tirincanti aveva una pensione dove dormii quelle notti. Fu la prima volta che suonai e registrai in cabine separate. Avevo il clarinetto in cuffia, potevo sentire anche il suo respiro».
Non conserva memoria di cos’altro accadesse intanto nel mondo, «Ho studiato talmente tanto in quegli anni che non ricordo altro», mi dice. Poi, però, qualcosa affiora. «I biglietti del Teatro alla Scala venivano distribuiti nelle fabbriche, alla Pirelli, alla Falck, alla Siemens, per avvicinare il pubblico a un certo tipo di teatro. Si organizzavano concerti nelle fabbriche, proprio nelle catene di montaggio, dove portammo Beethoven, “L’uccello di fuoco” di Stravinskij. C’era un filo rosso da sognatori e la Scala aveva uno stretto dialogo con i sindacati. Si battevano affinché i suonatori che fornivano prestazioni occasionali venissero super pagati, dato che lavoravano solo pochi giorni e poi chissà quando. Si facevano rispettare i diritti della maestranze, dai sarti ai macchinisti. I grandi sindacalisti si fermavano a parlare con noi dopo gli spettacoli. C’era un’idea di società che sarebbe dovuta diventare più colta e consapevole. Parlo di un’epoca che sembra lontana anni luce».
Tornando a parlare di Tirincanti, Ada Mauri mi dice che ha un figlio percussionista, e che scopro suonare oggi con Balze Bayley, ex Iron Maiden. «L’ha chiamato Claudio in onore di Abbado». Da qui parte per raccontarmi la sua musica per altri tempi, l’opera di cui più conserva il ricordo: la suite “Il mandarino meraviglioso Op. 19, Sz. 73” di Béla Bartòk, portato in scena al Teatro alla Scala, con direzione di Claudio Abbado, sia in versione balletto che sinfonica. «L’opera è un balletto con uno schema moderno - racconta Mauri - narra di un gruppo di banditi che costringono una ragazza a prostituirsi. Ha tre incontri: con un vecchio, un giovane e con un uomo d’avventura, il mandarino meraviglioso. Lei rimane folgorata dal suo fascino. In scena c’era una lampadina verde. Ricreava l’ambiente di una taverna sotterranea, uno scantinato dove la donna riceveva i vari uomini e che trasmetteva un senso di squallore. Il pianoforte ha un suo motivo poetico nel secondo incontro, con il giovane, per poi unirsi ad un effetto con il coro a bocche chiuse verso il finale del terzo incontro, con il mandarino».
In una lettera dell’ottobre del 1918 indirizzata alla moglie, Bartók scriveva: “Sto pensando al Mandarino; se funziona, allora sarà un brano di musica diabolica. All'inizio - come una breve introduzione prima dell'apertura del sipario - ci sarà un rumore spaventoso, un fragore di metallo stridente, clacson urlanti: condurrò il 'delicato' ascoltatore dal frastuono delle strade di una città fin dentro un covo di delinquenti”.
A marzo del 1919 riassunse la trama in questo modo: “In un covo di delinquenti, tre furfanti costringono una ragazza bella e giovane ad adescare dei passanti per poi derubarli dei loro averi. Il primo è un vecchio laido, il secondo un giovane senza soldi, ma il terzo è un sano cinese. Quest'ultimo è un buon colpo, e la ragazza lo intrattiene con una danza, risvegliando il desiderio del mandarino fino a farlo pulsare appassionatamente. La ragazza indietreggia terrorizzata. I delinquenti lo attaccano, lo derubano dei soldi, lo soffocano con delle coperte, lo colpiscono con una lama ma invano: non possono sopraffare il mandarino, i cui occhi guardano la ragazza con bramosia e passione. La sensibilità femminile viene in aiuto della ragazza che appaga il desiderio del mandarino, il quale cade a terra senza vita”. La prima all’Opera di Colonia, il 27 novembre 1926, si chiuse - come raccontano le cronache del quotidiano Kölner Stadt-Anzeiger - con il pubblico rimasto in sala che urlava: “Vergogna! volgarità! scandalo! subissando gli applausi.
Il chiasso è aumentato di nuovo quando a dispetto di ogni evidenza il sig. Bartók è salito sulla scena; era proprio il momento di calare il sipario, cosa che fu fatta con il plauso della maggioranza”. Solo sedici anni dopo, l’opera riuscì ad essere eseguita in forma di dramma coreografico, proprio alla Scala di Milano.
Trascorro il dopopranzo del nono giorno di quarantena dell’Italia ascoltando "Il mandarino meraviglioso", che trasforma la mia camera da letto in un’ambiente da cinema noir. Scopro la biografia lunare di Bartók. Di lui si parla anche su Mercurio, dove si trova il cratere Bartók. Sulla terra è stato invece Eduardo Sanguineti a dedicargli non una poesia ma un intero libro di poesie, "Mikrokosmos". Tra le sue imprese straordinarie: scrisse al Ministero degli Esteri del Reich per un reclamo. Il suo nome non compariva tra i “malati mentali” esposti alla rassegna di arte germanica anti-regime, organizzata dal Ministro della Propaganda Joseph Göbbels per mostrare l’arte degenerata. In un successivo documento si dichiarerà non-ariano, chiedendo di seguire la stessa sorte dei suoi colleghi ebrei.
«È un’opera cruda», leggo sugli appunti dell'intervista ad Ada Mauri. «Come sono opere crude “Wozzeck” e “Lulù” - mi ha detto la pianista - rispettivamente la prima e l’ultima opera che ho eseguito alla Scala. Sono entrambe dello stesso compositore: Alban Berg. In “Wozzeck” c’è la tragedia del soldato, c’è la follia, la gelosia e la malattia mentale del vivere il disagio. Lulù invece è una donna che conduce una vita spregiudicata. Al romanticismo e al senso estetico dei libretti precedenti, si sostituivano testi più letterari. La psicoanalisi cominciava a farsi strada anche come tema musicale». Solo a fine telefonata, quando le ho chiesto in che momento della giornata consiglia di ascoltare Il mandarino meraviglioso, Ada Mauri mi ha risposto: «In nessuno. Non consiglio di ascoltarla in questi giorni». Io, l'ascolterò due volte, anche nella versione per pianoforte.
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L'articolo Ada Mauri e il diabolico caso del "Mandarino meraviglioso" di Valerio Millefoglie è apparso su Rockit.it il 2020-03-19 12:38:00
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