Che le cose sarebbero state complicate lo avevo capito già venerdì, quando unmetallaro era venuto a trovarci in redazione per ritirare dei fumetti presi su Vinted. Accortosi di essere nella redazione di Rockit, con estremo garbo, aveva iniziato a schifare la cosiddetta musica di oggi, con cui saremmo in combutta. Gli abbiamo perciò chiesto: ma chi ti piace, allora, a parte i tuoi? "I Måneskin", la sua risposta.
Ma come? Tu, integerrimo metallaro che disprezzi, non senza ragioni, la poppizzazione del rap e la rappizzazzione del pop, ti sei appassionato ai Måneskin? Quelli usciti dal talent, quelli in prima linea nelle sfilate d'haute couture, nell'albo d'oro di Sanremo a quota uno come Giò Di Tonno, gli Homo Sapiens e Alexia. "Almeno loro suonano", la sua laconica risposta.
Aveva ragione da vendere il garbatissimo amico metallaro. E posso testimoniarlo, non senza un briciolo di dissidi interiori e orgoglio ferito, dopo aver assistito al loro live di San Siro martedì 25 luglio. Il secondo consecutivo e il primo con gli alberi a bloccare tre quarti delle strade di Milano. Proprio per questo motivo arrivo in ritardo ed entro allo stadio che il piazzale è quasi tutto vuoto, i pochi tiratardi come me sono banchetto di stormi di zanzare in modalità X Files. Ahime questa volta rischio di non avere sufficiente materiale per produrmi nella mia consueta analisi antropologica da strapazzo sul pubblico della band (qua quella dedicata ai Pinguini Tattici Nucleari).
I più giovani corrono e gli adulti camminano a passo spedito verso i varchi, perché intanto il live è iniziato, come si evince dal boato che proviene da dentro San Siro e che pare quello per un gol di Lukaku (paragone sbagliato). Da fuori sentiamo, ma non vediamo, l'esordio dei quattro conDon't Wanna Sleep, seguita da Gossip. Non sento – forse perché non c'è – la chitarra di Tom Morello, che chissà perché mi immaginavo presente, visto che pochi giorni fa era a Pratiglione, nel canavese, a ricevere la cittadinanza onoraria. Probabilmente in quel momento stava guardando il tramonto con un bicchiere di Erbaluce in mano. Subito dopo tocca a Zitti E Buoni, brano per me bruttino da ogni angolazione lo si prenda, che ha rappresentato uno dei tanti punti di svolta di una band che ne ha infilati uno dopo l'altro negli ultimi due anni. Ma questo è il più grande di tutti. Inutile dire quanto sia fomentata la gente, sicuramente uno degli highlights della serata.
Ora siamo seduti e mi guardo attorno. San Siro ancora una volta è bello pieno, sia sul prato telonato che accoglie il palco oblungo della band, sia sui tre anelli (voi dove eravate?). Il tempo dei finti sold out è finito, o per lo meno non paiono averne bisogno gli artisti che hanno azzardato gli stadi quest'estate. Di certo non i Måneskin. Sotto palco vengono issati decine di cartelli bianchi, dove non so cosa ci sia scritto. Sulle gradinate iniziano a illuminarsi le torce dei telefoni.
Mi guardo attorno. Sono in tribuna, fondamentale premetterlo. Da un punto di vista dell'età c'è davvero di tutto. Coppie di ventenni, più femmine che maschi e femmine. Coppie di trenta-quarantenni. Svariati cinquantenni da soli e con figli adolescenti al seguito. C'è pure gente più agée, o che porta molto male i propri anni. I giovani cantano le canzoni, almeno quelle in italiano, i vecchi fanno su e giù con la testa e battono i piedi. Mediamente carichi.
Sul prato l'energia è un po' intermittente. La gente vuole i singoli (che non sono pochi comunque), sui filler serve il richiamo di Damiano – "Milano fai un cazzo di casino", ma perché ormai dicono tutti così?! – per aizzare la gente, ma il gasamento dura solo pochi istanti. Ah già, Damiano. Il frontman della band è l'assoluto protagonista dello show. Parla molto, ricordando la storia del gruppo e l'emozione di essere lì considerando da dove sono partiti. Fa un po' di tutto, bene.È magnetico ed emana testosterone, tanto che forse il massimo dei decibel tra il pubblico si raggiunge quando si toglie la canotta. Canta meglio in inglese che in italiano, o almeno questa è la sensazione. Si concede Iron Skydi Paolo Nutini – "pezzo da talent", butta lì malevolo il socio accanto a me – a cappella e un paio di momenti calamutanda in acustico, tra il pubblico, con il socio Thomas.
Alternano pezzi nelle due lingue, in una scaletta inevitabilmente più autarchica rispetto a quella delle date estere del loro incredibile neverending tour dei Måneskin. Passando dal Locomotiv a Coachella senza soluzione di continuità, i quattro sono live praticamente da tre anni. Mi sorprendo su Wikipedia a compulsare la discografia della band, che rende perfettamente l'idea dell'unicità di questo loro percorso. Guardiamola un attimo assieme. Nel 2017 vanno aX Factor, avrebbero vinto non fosse per l'irraggiungibile Lorenzo Licitra.
Pubblicano un ep, su cui compaiono la loro Chosen (in scaletta nella serata) e varie cover come Beggin' dei Four Seasons. Nel 2018 ecco il loro primo disco, Il ballo della vita, che contiene metà pezzi in italiano e metà in inglese. Spiccano Morirò da re e Torna a casa, c'è pure un brano con Vegas Jones (!). Non è un successone. La stampa comincia ad azzannare, Damiano durante il concerto (come un Ultimo meno rancoroso) lo ricorderà un paio di volte, salutando calorosamente chi diceva "che siamo un gruppo di cover". Ciao anche a te, Damiano.
Arriva il 2021, Sanremo non è che sia un'ultima spiaggia ma di certo la china non è favorevolissima. Invece Zitti e buoni cambia tutto. Subito dopo esce Teatro d'Ira, quasi tutto in italiano. Assieme alla hit sanremese (e successivamente incoronata all'Eurovision) ci sono Vent'anni, Coraline, In nome del padre, tutte eseguite a San Siro. E I Wanna Be Your Slave.
Ormai, però, la zipline del successo è partita inarrestabile, parallelamente a quella delle rosicate altrui. E così i Grammy, Jimmy Fallon, i tour mondiali, il Primavera. Damiano e soci sono entrati nel giro giusto e non sbagliano più un colpo, o meglio tutto quello che fanno funziona. I pezzi vecchi, prima passati inosservati, vengono rivitalizzati, come nel caso di Beggin' e I Wanna Be Your Slave (unico pezzo bissato a Milano), benedetta da Iggy Pop. I singoli dopo sono tutti, chi più e chi meno, roba da heavy rotation: Mammamia, The Loneliest (che apre il bis), Baby Said. Il terzo disco, Rush, è il primo "americano" (in realtà è prodotto in parte ancora in Italia e anche a Tokyo): ha dentro dei colpi, ma anche la sensazione di qualcosa fatto un po' in fretta, tra le mille date di un tour trionfale.
Insomma, un repertorio vario ma a volte troppo vario, tra cambi linguistici e switch tra gli infiniti sottogeneri di sua maestà il ruock: ci sono incursioni nel crossover primi 2000, pezzi glam, ballatone, un pezzo quasi Oi! comeCool Kids, intonato con accento brit in mezzo al pubblico semipogante sul palco, personalmente uno dei più apprezzati. Un repertorio figlio dell'irripetibile esperienza di quattro ragazzi romani che sono partiti per l'iperuranio senza avere nemmeno il tempo di accorgersene.
Mentre li osservo sul palco di San Siro mi rendo conto che tutto questo li diverte. E che se lo meritano. Perché a dare senso e forza a quel repertorio un po' accrocchiato sono loro quattro, e quel che attorno a loro è stato costruito. Non solo Damiano è molto bravo, lo sono tutti. Il suono è potente e vero, pure in un posto dispersivo come San Siro. Da un punto di vista del livello musicale danno la paga al 90% della roba che c'è la fuori. Avranno un'immagine fortissima, ma c'è anche tanta sala prove. Victoria è una macchina con il basso, Thomas e Ethan (che magari non sono i più tecnici del mondo per il genere che fanno) altrettanto efficaci. E poi lo show: le luci, il fuoco, il cambio palco, i loro movimenti lungo tutto lo stage, l'intervallarsi di momenti di intensità del tutto diversa. È tutto studiato benissimo, funziona tutto benissimo. "Che bello, sembra di stare in Europa", viene da dire citando una mia ex collega boomer come nessun altro.
Il grande mistero, semmai, rimane come un pubblico generalista possa non solo "sorbirsi" due ore di rock, mafomentarsi per esso. Al di là di un paio di t-shirt di Foo Fighters e Guns, nulla lascia pensare che la maggioranza della gente lì dentro ascolti un solo altro gruppo rock che non siano i Måneskin. Èun popolo stranissimo, il loro. C'era gente abbigliata da corso Como, gente da raduno scout, gente uscita da lavoro di corsa. Pochissimo merch addosso, altra cosa insolita per un gruppo con una simile presa. Chi sono costoro?
Non si sa esattamente quale mix di passione musicale, schiavismo dell'hype, culto della personalità o altra motivazione muova queste persone verso uno show del genere. Chiunque lo abbia fatto si è goduto cinque minuti di assolo di chitarra e altrettanti di batteria pestona, e pure un notevole momento in cui Thomas si è divertito con ledistorsioni. Oltre a tutto il cucuzzaro di pezzi à la Idles, à la Zeppelin (poco), à la My Chemical Romance e magari pure à la Linea 77. Roba che passa in radio solo quando loro passano in radio. No, non lo so come sia stato possibile, immagino non lo sappiamo nemmeno loro. Ritengo però che l'amico metallaro avesse ragione: del loro successo c'è da rallegrarsi. Magari non farà tornare gli anni '70, ma è un sapore nuovo e diverso che un sacco che di persone provano per la prima volta. Esco fuori e le zanzare sono ancora tutte lì ad aspettarmi.
---
L'articolo "Almeno i Måneskin suonano": finalmente ho capito cosa volevate dire di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2023-07-26 11:42:00
COMMENTI (6)
Ho 59 anni . . . sono Magnifici anzi . . . Deppiù . . . Grandiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii . . . . . .
Mi piace ricordare che lo scorso anno furono scelti anche da un regista da Oscar come Baz Lurham per reinterpretare If I Can Dream del grande E.P. per il film "ELVIS", appunto. La registrarono a Graceland, e non è poco.
Grandi Maneskin 😊👏
Scusa un errore di dettatura: se lo meritano lavorano tanto
Sono contenta che tu li abbia apprezzati, se lo merita non lavorano tanto, si divertono e fanno divertire. Li ho visti a Trieste portandomi dietro cinque tedeschi, vivo a Monaco di Baviera, teenager e cinquantenni. Il loro popolo è trasversale, questo è anche bellissimo. Sono orgogliosa di loro e della strada che hanno fatto
Dario hai scritto un bellissimo articolo. È ironico, molto preciso e concreto, e mi ha fatto venire voglia del prossimo tour dei Maneskin. Grazie