Sono mesi che canto sempre la stessa canzone, mentre sono in giro in motorino e Milano con i suoi fumi nelle narici. Dice così: "E parlo ancora come nelle strade tipo zio, bro, frate. Faccio ancora quelle cose che dite ma non fate". Se vi capita di vedere al semaforo uno che canticchia queste parole, tratte da Nato per questo, per favore non ditemi nulla. Ho quarantanni e odio quando me lo fanno notare.
Anche quando non mi copro di ridicolo in questo modo, ultimamente finisco spesso per pensare ai Club Dogo. A cosa il loro incredibile exploit ci dica della musica in Italia, della direzione in cui stanno andando la discografia e l'industria dei live. Prima di diventare cellula dormiente (pure loro...), la band milanese aveva fatto sette dischi e centinaia di concerti tra il 2002 e il 2015. Nella loro città, Milano, l'apice della loro attività dal vivo era stata probabilmente la doppia data all'Alcatraz del gennaio 2015, qualche mese dopo l'uscita di Non siamo più quelli di Mi Fist. Una cosa decisamente notevole per un collettivo rap ai tempi: nel complesso significa che sotto il loro palco in quell'occasione passarono circa 6mila persone.
Solo che ora quelle persone sono diventate, tra live già fatti e quelli a venire, parecchie di più: tra le 150 e le 200mila. Questo dopo dieci anni di silenzio artistico (nel frattempo è uscito il loro nuovo disco – anzi discone – ma dopo che avevano venduto già la grande maggioranza di quei biglietti) e a vent'anni di distanza dai brani che hanno avviato il loro culto, quelli di Mi Fist e Penna Capitale. Sento già le obiezioni, e stanno tutte in piedi. Ma la proporzione tra il prima e il dopo rimane impressionante.
Cos'è successo nel frattempo? I Dogo hanno avuto tre buone carriere soliste, soprattutto Gué che è diventato una superstar, ma soprattutto è cambiato il mondo attorno a loro. Il rap da sottocultura è diventato mainstream, egemone per le nuove generazioni. I live hanno ripreso a funzionare alla grande, soprattutto quelli grandi (anzi solo quelli), spinti dalle diaboliche regole dell'hype e della FOMO. E poi c'è la nostalgia, oggi il motore più potente di tutti per il successo di un progetto artistico.
Con questi pensieri e le barre del nuovo disco dei Dogo nella testa, mi dirigo verso il Forum d'Assago, per assistere a una delle 10 date sold out della band. Per farlo passo da più di un luogo di quelli che hanno costruito la loro mitologia antica e recente. Il cavalcavia del Giambellino, dove sono girati i visual di C'era una volta in Italia, via Campari, che appare in Soli a Milano, e poi il Barrios, via De Pretis. Non sono nato a Milano, e sono consapevole che questo limita e di parecchio la mia "sensorialità" rispetto ai Dogo, ma passare tra questi palazzoni, prima di finire tra i campi del Parco Sud, mi aiuta a entrare in clima partita.
Una volta dentro al palazzetto, il palco calamita subito l'attenzione. Ultimamente di concerti qua ne passa uno al giorno, per tanti artisti è la data della vita e questo ha creato una competizione feroce a cercare di spiccare da un punto di vista della messa in scena. Le aspettative sono dunque altissime, soprattutto per questa specie di residency di dieci date.
Il palco è fantastico. La silhuouette del Duomo di Milano creata con i ledwall, la consolle di Joe che a sua volta proietta i visual, e poi le luci e i laser. Nulla di esagerato, tutto super evocativo, come lo sono i lunghi e poetici video che fanno da intervallo tra una parte e l'altra dello show, permettendo di tirare il fiato lungo quasi due ore tiratissime.
I tre Dogo sono semplicemente mostruosi. Con il rischio di indulgere anche noi nella nostalgia e nel passatismo, dobbiamo dire che la capacità di rappare e di stare sul palco di questi artisti non ha nulla a che vedere con buona parte dei loro colleghi che hanno avuto successo (successo enorme) in tempi più recenti. Due ore di rap ininterrotto, in cui ogni parola che si sente (e si sente molto bene) esce dalla loro bocca. O da quelle dei pochi ospiti che li raggiungono sul palco: non la solita sfilza di nomi noti, ma ciascuno un piccolo culto underground che qua si prende il meritato proscenio come Giuliano Palma (per PES) o Vincenzo da via Anfossi (Puro Bogotà, il più applaudito di tutti), oltre a J-Ax (Brucia ancora).
Un'altra cosa che mi colpisce è la risposta del pubblico alla scaletta, molto ben studiata nel creare dei fili rossi tra pezzi con lo stesso mood. Ricalca più o meno quella della prima sera. I brani che fomentano maggiormente la platea sono quelli più vecchi e quelli più nuovi. Tutta la roba "primi Dogo", quella più underground e persino impegnata, da Note Killer a Cronache di resistenza e Rap soprano - Hardboiled creano il panico. Ma allo stesso tempo, e questa è una cosa molto rara, le canzoni del nuovo disco sono apprezzatissime (su "merce in sala beppe" e "la collabo perfetta è Jake La Furia featuring Jake la Furia" è il tripudio), cantate dalla prima all'ultima strofa. No, non è solo nostalgia. Un filo meno di decibel per il periodo più "pop" dei Dogo, qua rappresentato da pezzi come Lisa e Fragili.
Senza rendermene conto, e nonostante il suo splendore, il mio sguardo ormai non è più fisso sul palco. Mi ritrovo con sempre maggior insistenza a fissare il popolo dei Club Dogo, e cercare di capire chi sono. Mi rendo conto di essere davanti a un "fenomeno" abbastanza raro. O meglio, mi pare raro che un fenomeno del genere riesca a raggiungere queste dimensioni. Jake e Guè – che sul palco si divertono un sacco e non hanno alcun filtro nei loro brevi speech tra un pezzo e l'altro – ricordano come tutto questo fosse impensabile un tempo, perché i Dogo sono stati a lungo una band dell'underground, che giornalisti ed etichette non si cagavano di striscio (e per questo, dicono, "li abbiamo mandati affanculo").
Il pubblico del Forum è intergenerazionale. I 25-30, al primo sguardo, rappresentano la fetta più grande della torta. Ma ci sono anche ventenni o simil tali, così come i gruppi di quarantenni e passa non sono affatto sparuti. A tutti gli ultimi grandi live rap (non solo di artisti under 30) cui ho assistito, la quota di teenager o universitari era preponderante, quasi totalitaria.
C'è qualcosa di diverso anche nel modo in cui il pubblico sembra vivere questo concerto. Se all'ultimo live di Tedua, uno che sposta le masse, mi aveva colpito la straordinaria connessione con gli spettatori, il trasposto nel seguirlo dall'inizio alla fine nelle rime (quando ci sono...), con i Dogo è tutto meno privato, individuale, mentre la dimensione di appartenenza è molto spiccata. Per certi versi, sembra di stare allo stadio. Infatti il merch (non esattamente regalato) va alla grande, soprattutto le sciarpe. La gente cerca gli inni (Dogo! Fiero!), come in curva, non le canzoni d'amore.
Questa tribù, oltre che varia nell'età, appare diversificata socialmente. Ci sono – un gruppo ben nutrito – i truzzi delle "perif", con le tipe gonfie in faccia e i tipi con le Air Max. Ci sono i vecchi rappusi con il bomber della Death Row e tantissimi "normie", che non assomigliano per nulla a quella "marmaglia" e alla "gente con i problemi" che i Dogo si prefiggono di cantare.
Ognuno può trovare la propria soddisfazione in questa famiglia, chi dall'omaggio ai Wu Tang sul mixer, chi da booster e dalle panchine portate sul palco a un certo punto dello show. Chi cantando a squarciagola di cose "che dice ma non fa", chi godendo dell'incredibile capacità di descrizione della realtà, quasi neorealista, dei testi della band, con gente che legge la gazza e altra che sposta panette. Oppure ballando quando i ritmi si fanno in levare, uno degli aspetti che personalmente mi ha sempre maggiormente affascinato dei Dogo.
Risalgo sul motorino, mi sembra di tornare da San Siro e invece era un'altra arena, un altro sport. Non posso che dare ragione a Gué, Jake e Joe. Club Dogo è per la gente. Non sono per nulla in tanti a poter sostenere una cosa del genere oggi in Italia.
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L'articolo Andare al concerto dei Club Dogo è un po' come andare allo stadio di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-03-21 11:39:00
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