Il testo che trovate qui sotto è un intero capitolo di La comunione dell'aria, libro di Valerio Millefoglie da poco edito da Solferino. Questo capitolo del volume parla di Eddie Busnello. Sassofonista belga naturalizzato italiano dopo il trasferimento a Nervesa della Battaglia (TV), è scomparso all’età di 55 anni nel 1984. È stato un sassofonista incredibilmente eclettico e talentuoso, capace di mettersi alla prova in mille modi diversi. Entrò negli Area di Demetrio Stratos e Giulio Capiozzonel 1972, e insieme esordirono nel '73 con Arbeit macht frei, il primo album di uno dei gruppi simbolo degli anni Settanta.
La comunione dell'aria è "un reportage nel passato": una raccolta di racconti dietro lo sguardo di Shu, personaggio che "ha fame d’aria". Ma non in senso figurato: soffre didispnea, una patologia che ti toglie il respiro dai polmoni all’improvviso. Forse per questo dell’aria ama parlare.
Dalla storia della Tromba del Montello del 1930 a quella della prima orchestra di theremin; fino a Francis Beaufort, il primo nel 1805 a descrivere l’intensità del vento (con la scala che ancora oggi porta il suo nome). Tante storie (che dissotterrano eventi e personaggi) e un comune denominatore: l'aria. Per capire "in che modo una catastrofe si propaghi nel tempo anche dopo il suo passaggio, in che modo tocchi le vite dei posteri", come spiega l'autore di questa opera.
Ringraziamo Valerio che ci consegna in dono questo capitolo, che racconta l’incredibile storia di un grande protagonista della musica italiana degli scorsi anni: Eddie Busnello, colui che dell'aria ha fatto la sua musica.
Ci sono persone che entrano nella tua vita e lasciano una scia, non di detriti ma di polvere che si sedimenta da qualche parte in te. Eddie mi ha lasciato qualcosa che, a distanza di trent’anni da quando l’ho incontrato la prima volta, è sgorgata fuori. Così sono andato a parlare con chi l’ha conosciuto, con chi ci ha suonato insieme, ho recuperato vecchi supporti magnetici di materiale inedito registrato su nastri Revox, il tutto per sconfiggere l’oblio. E anche perché in qualche maniera la ricerca di Eddie mi faceva sentire più vicino a mio padre. Il pensiero del tornado che sposta via le cose, che le trascina lasciando residui ovunque, per me è come il pensiero della vicenda che vi sto per raccontare.
Massimo Libero Michieletto
Un uomo di cinquantacinque anni con indosso una maglietta a maniche corte bianca e nera, trapuntata a pois, giace steso intorno alle 10:00 di mattina, un lunedì di giugno del 1984, sull’erba di un’isola spartitraffico lungo la strada statale che da Conegliano Veneto conduce a Nervesa della Battaglia. Poco prima, un padre, operaio metalmeccanico in una fabbrica di elettrodomestici a Susegana, ed un figlio dell’età di dodici anni, di nome Massimo, sono usciti dall’ospedale di Conegliano, dove si erano recati per una visita del ragazzino.
Nel momento che vi raccontiamo, stanno tornando verso casa, proprio a Nervesa della Battaglia. "Ma quello è Eddie" esclama l’uomo al volante di una Ford Taunus Coupé azzurro cielo, metallizzata. "Ma chi è Eddie?" chiede Massimo. "Un amico" risponde il padre mentre fa inversione con l’auto che ogni sabato venera ed onora, protagonista del rito del lavaggio con la pompa dell’acqua e con la spugna nel cortile di casa.
Le conquiste sociali negli anni Ottanta passano attraverso le cose, il tenerle pulite e l’abbattere muri di casa per illudersi di una vita più spaziosa. Massimo non comprende come mai a lui sia vietato entrare in auto con le scarpe sporche e invece ora, mentre viene declassato al sedile posteriore, lo sconosciuto di nome Eddie, con l’odore di chi non tocca un letto da giorni e sporco di fango, può tranquillamente posare la schiena e le foglie rimaste appiccicate alla maglia, sul sedile anteriore della macchina venerata dal padre.
Sono discorsi da retrocucina, quelli tra il padre e la madre, fatti a voce così bassa che arrivano anche a chi non dovrebbero, come se il silenzio fosse un amplificatore. “Ma come” chiede la donna al marito mi porti a casa un tossico, un alcolizzato? Gli occhi spiritati, i capelli arruffati, le foglie che si staccano dalla maglia e vagano nella cucina sopra le vettovaglie, persino i denti che non ha più, ogni cosa di Eddie affonda nel piatto di tagliatelle. Un aspetto da scampato, da naufrago, seduto alla testa di un tavolo di legno massiccio, invecchiato a dovere, avvolto dall’odore di carne fresca al ragù.
Accanto a lui è seduto Massimo. "Sei bravo a scuola? Ti piace la musica?" chiede Eddie, per poi consigliargli di non essere bravo in tutte le materie ma solo in alcune. "Uno bravo in tutto non è bravo" gli dice. La cucina è piccola e il tavolo è così grande che quasi pare debba sobbarcarsi lo spazio e le possibilità economiche mancanti. Quella cucina, marito e moglie avevano infatti da poco provato ad allargarla, l’uomo aveva abbattuto già il muro a picconate, incurante delle concessioni edilizie e dei dolori che presto si sarebbero impossessati delle braccia.
Dopo pranzo, Eddie fa un pisolino sul divano del soggiorno. Alle tre, il padre di Massimo lo riporta a casa. Al rientro, il figlio chiede al padre: "Ma chi è questa persona?". Il padre risponde: "Uno dei più grandi musicisti che ci siano adesso in Italia".
Gli racconta anche che proprio pochi giorni prima, al sabato, è stato in compagnia di Eddie all’Osteria de Trache, che prende il nome da un vecchio proprietario zoppo, il cui incedere claudicante da gamba di legno, trìcchete-tràcchete, gli era valso il soprannome di "Trache".
Dunque, dopo aver suonato il bebop nei locali a luci rosse di Rue du Pot d’Or a Liegi, in Belgio, e poi a Bruxelles e ad Anversa, dopo essere entrato nell’orchestra del jazzista jugoslavo Duško Gojkovic, dopo aver detto no a Chet Baker e a Dizzy Gillespie, Eddie decide di vivere in Italia, a casa della madre dove lo riporta il padre di Massimo.
Nel 1973, aggiungiamo, Eddie entra a far parte degli Area, lo si può sentire nel disco Arbeit macht frei e vedere nella foto posta sul retro di copertina: Eddie ha la stessa maglia che indossava nell’isola spartitraffico di Conegliano Veneto; anche qui è sdraiato per terra, spalle ad un muro bianco. Il brano Luglio, agosto, settembre (nero), con il quale comincia il disco, si apre con il verso: "Giocare col mondo facendolo a pezzi / Bambini che il sole ha ridotto già vecchi".
A inizio degli anni Ottanta, Eddie porta la sua musica per sax e giradischi nelle osterie del Veneto. L’oste mette i dischi sul giradischi e lui improvvisa, fino a quando possiede tutti i denti, con sax e fisarmonica, e poi al flauto. Due giorni dopo quel pranzo del 1984, Eddie si presenta a casa del suo amico con una rosa per la moglie e il disco 45 giri per Massimo dal titolo La protesta di Giacomino - Il Ciclone. Due settimane dopo, siamo al 16 novembre 1984, Eddie muore.
"In Eddie non vidi un barbone, ma un uomo con gli occhi di fuoco", spiega oggi Massimo, "aveva una fame ancestrale, un bisogno primordiale. La mia paura da bambino è che dietro questa immagine non convenzionale, potesse esserci un uomo che negava i propri sentimenti. Invece Eddie, tornando a casa con quei doni per me e per mia madre, mi convinse che si potesse essere diversi pur rimanendo fedeli a delle caratteristiche umane buone. Pur da esseri disastrati, si poteva essere integri.
Il giorno del funerale la chiesa era gremita di gente strampalata, mai vista prima. Fra tutti spiccava un ragazzo con dei capelli lunghissimi seduto nelle prime file. Svettava così tanto che per me era come se annientasse tutti gli altri intorno. L’arciprete non sapeva chi fosse Eddie, come d’altronde non lo sapeva la maggior parte delle persone in paese che lo trattavano come un balordo, un girovago squattrinato per l’Europa.
Quando giunse il momento della predica, l’arciprete, non sapendo cosa dire, chiese aiuto a quelli seduti in prima fila. "Dite qualcosa". Questi risposero: "Noi non possiamo dire niente, però abbiamo una cosa qui. Abbiamo una cassetta e una radio. Se vuole possiamo mettere su un brano". E così avvenne, le parole della predica furono la musica di Eddie. Il brano era The Gypsy, eseguito con l’orchestra serba di Duško Gojkovic.
«Al termine del brano scattò un applauso interminabile, a tal punto che il monsignore che aveva fretta di concludere la cerimonia, e che si era già avvicinato all’altare, si dovette arrendere di fronte a questo applauso infinito. Pronunciò queste ultime parole, e furono la sua unica predica: "Eh, vabbè"».
La lapide di Eddie Busnello dista quaranta passi dalla lapide paterna. "Mi piacciono molto i cimiteri", spiega Massimo, "mi piace l’ordine che lì governa nell’aria. Le vite sottostanti vengono mescolate sempre con un certo rigore geometrico. La vita di Eddie si mescola con quella delle altre persone: in questa foto Eddie sembra tutt’altro che un artista maledetto".
Il 16 novembre 1984, giorno della dipartita di Eddie, la velocità media del vento a Nervesa della Battaglia era di 29,4 km/h, la visibilità media di 7,7 km. Il 21 marzo del 2013, data del funerale del padre di Massimo, la velocità media era di 9 km/h e la visibilità di 8 km/h. Un giorno anche noi moriremo ed è un peccato non ricevere con abbastanza anticipo le previsioni meteo. Non sapere come dovremo farci vestire.
«Ciò che mi resta di quel pranzo con Eddie a casa mia è l’immagine di due uomini, due energie in conflitto, e al contempo indispensabili l’una all’altra. La vita di sacrifici e l’arte che nulla può sacrificare. L’apollineo e il dionisiaco. La consapevolezza che si deve vivere una vita di frontiera. Cioè, si deve stare da una parte o dall’altra. In mezzo c’è tutto quello che può succedere.
La musica che Busnello ha suonato e la fabbrica dove ha lavorato mio padre sono due territori dove loro hanno provato a vivere. Uno non si presentava ai concerti, non riusciva a suonare perché strafatto, e quando non impegnava il suo sassofono per recuperare pochi soldi, suonava cose bellissime. L’altro entrava in un luogo al suono di una sirena con la motivata convinzione che dopo otto ore ci fosse un mondo fuori tutto da costruire.
Penso malinconicamente che Busnello si trovasse all’inizio del suo sax, mentre mio padre vivesse disposto ad accontentarsi della fine. Eddie era la bocca, mio padre l’orecchio. Entrambi avevano il volto segnato dai piaceri e dispiaceri della vita. Le rughe sul viso erano le stesse. Mio padre ha accudito Eddie per qualche ora, gli ha passato forse anche un po’ di soldi, ha fumato con lui pacchetti interi di MS, e hanno bevuto lo stesso vino provando reciproca tenerezza, senza che nessuno dei due sapesse cosa fosse esattamente la vita dell’altro.
Uno sembrava non avere la consapevolezza della grandezza della musica che suonava, l’altro sembrava non avere la consapevolezza del valore futuro del suo lavoro. Entrambi conoscevano il valore del dono. Questo sì.
Eddie, quando non suonava, correva nudo per i corridoi di un ospedale, incendiava lenzuola, beveva, faceva a botte, soffriva e, in mezzo a tutto questo, creava cose stupende. Mio padre, quando non faceva il padre, respirava polvere di metallo e si ustionava le mani con gli elettrodi incandescenti, soffrendo allo stesso modo.
Quel giorno ho capito che la vita è una delle manifestazioni di tutto ciò che la precede e di tutte le cose finite che un uomo riesce a fare. Ho avuto la netta sensazione, quel giorno, di come il senso della vita possa stare tutto compresso nella conformazione delle mani, della bocca, del volto di un uomo.
La comunione dell’aria è anche un reading per voce e per vento. Nella performance Valerio Millefoglie alterna la lettura di alcune pagine del libro a un campionario sonoro di venti, voci registrate e musiche che rievocano fulmini e altri eventi atmosferici. Qui la prima data (giovedì 24 giugno, ore 21, Giardino di Sant’Osvaldo a Rovereto)
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L'articolo Il sax di Eddie Busnello soffia ancora su di noi di Valerio Millefoglie è apparso su Rockit.it il 2021-06-17 14:30:00
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