Un sistema dissipativo è composto da elementi connessi tra loro, la cui evoluzione nel tempo è un insieme di relazioni matematiche delle quali almeno una non è lineare. Questo, di fatto, perché l’evoluzione avviene con scambi tra il sistema e l’ambiente circostante, ad esempio con la cessione di energia o materia. Questo fa sì che la condizione di equilibrio non sia raggiungibile e il comportamento del sistema sia complesso, caotico.
Insomma, riprendendo il tono adeguato al contesto in cui ci troviamo e fingendo di dissimulare competenze fisiche che sono solo un retaggio del tempo dei banchi di scuola sporchi di gesso, un gran casino. Prendiamo ora la musica, un sistema che di scossoni negli ultimi anni – come quasi tutti i cosmi, per via della rivoluzione digitale – ne ha subiti davvero molti, e che, per continuare a usare, un linguaggio tecnico, ora sta assieme con lo sputo. Bene, a questo sistema che è già collassato da un pezzo, solo che non lo sa ancora, ora applicate il Coronavirus, la madre di tutti gli spintoni, e capirete che il caos è il minimo che possa capitare.
Che, per via del trionfo dello streaming a scapito del disco fisico, il fatturato della musica dal vivo sia negli anni lievitato è cosa nota. Solo che, ve ne sarete accorti, al momento queste entrate non esistono più. E oggi le piattaforme hanno acquisito, fino a nuove brillanti intuizioni, ulteriore centralità. Anche loro sembrano andate incontro a dei cambiamenti: con un iniziale rimbalzo degli ascolti durante il lockdown e poi un calo, dovuto al cambiamento delle routine e alla diminuizione dei viaggi in auto.
A trainare il settore c'è Spotify, il colosso svedese da 4,09 miliardi di dollari l’anno (nel 2017), intorno al quale, nelle ultime settimane, si sono sollevate e inasprite alcune questioni finora ignorate, o irrisolte. Questioni che riguardano il rapporto tra gli artisti e le piattaforme streaming, tra la musica e il valore monetizzato dell’arte. Il dibattito parte da una constatazione: Spotify dovrebbe "pagare meglio" gli artisti, specie in un momento in cui gli stream rappresentano l’unica fonte di guadagno per loro, riconoscendo il giusto valore alle royalties.
Prima di decidere da che parte stare, bisogna conoscere il modo in cui funziona la piattaforma e secondo quali logiche attualmente Spotify finanzia gli artisti. Il principale attore nel settore della musica streaming genera le sue entrate attraverso gli abbonamenti e attraverso la pubblicità (con grande prevalenza della prima voce). Il servizio è disponibile in versione gratuita e in versione Premium. Abbonandosi, l’utente sceglie di pagare principalmente la mancanza di pubblicità. Secondo il Guardian il metodo per convincerlo a passare alla versione a pagamento non è dei più trasparenti: in un primo periodo la pubblicità nella versione gratuita è molto scarsa, poi comincia ad aumentare sempre di più, fino a raggiungere livelli quasi intollerabili.
Le entrate generate vengono ridistribuite all’artista secondo un complesso giro economico. Innanzitutto, non arrivano direttamente agli artisti, bensì passano per le etichette, i distributori, o gli editori e le società di gestione, che poi pagano i "soldi" agli artisti attraverso royalties. Ma quanto destina Spotify agli artisti? Circa il 65-70% sul totale dei flussi del suo servizio che, di media, equivale a circa 0,00318$ per stream. Spotify, paga sì gli utenti per stream, ma sulla base di una percentuale delle sue entrate, cui il flusso di denaro è condizionato.
A rigor di logica, quindi, Spotify dovrebbe semplicemente incrementare le sue entrate per assicurare agli artisti una più equa e maggiore retribuzione: per triplicare quello che viene pagato agli artisti, come si è proposto di fare durante la pandemia, bisognerebbe triplicare le entrate di Spotify. Eppure non è detto che all’aumentare delle entrate per Spotify corrisponda direttamente un aumento delle entrate per l’artista, almeno finché la società non cambierà le sue politiche economiche: è vero che le entrate per Spotify stanno aumentando, considerando che, nonostante le difficoltà del modello di business siano grandi, ogni anno la piattaforma raccoglie sempre più utenti, ma bisogna considerare i costi.
Il numero di abbonati a Spotify Premium è cresciuto di 30 milioni nel primo trimestre del 2020 rispetto al primo trimestre del 2019, a conferma del fatto che, almeno da questo punto di vista, la pandemia non ha danneggiato affatto l'azienda, in trend positivo nel dato che più gli interessa: il 45,5% dei suoi ascoltatori è su Spotify Premium, sebbene siano compresi piani studenteschi a metà prezzo e quelli famigliari. L’impressionante crescita degli abbonamenti Spotify, tuttavia, ha avuto dei costi esagerati per la società e l’ARPU (ricavi medi per unità, ossia le entrate medie pagate ogni mese dagli abbonati a Premium) è diminuito del 7% nel primo trimestre 2020, equivalente a 4,42 milioni di euro.
Le entrate ci sono, dunque, ma una cosa è certa: Spotify non ha ancora trovato una quadra economica definitiva (o meglio, ci ha messo troppo tempo a trovarla e ora sconta il ritardo) e finché non riuscirà a fare i conti con se stessa, non vorrà considerare e tutelare a dovere i diritti degli artisti su cui ha costruito il suo impero. Tra le soluzioni possibili, un modo per frenare il segno meno alla voce ARPU, sarebbe quello di aumentare i prezzi Premium standard, rimasti invariati a 9,99 euro/dollari al mese dal lancio del 2008.
Il motivo di tale rigidità di prezzo deriva dalla politica della società, la cui strategia principale è la crescita: massimizzare non le entrate, ma attirare quanti più utenti possibili verso la piattaforma. Tuttavia, in base all’esperienza di alcuni paesi come la Norvegia, in cui l’abbonamento è aumentato del 10% rispetto al prezzo iniziale, Daniel Ek ha recentemente dichiarato che Spotify è aperto a valutare l’idea, ma solo “quando l’economia migliorerà”.
Netflix e altri servizi digitali hanno già aumentato il loro prezzo nel tempo, senza soffrire eccessivamente la rabbia dei clienti, anche perché, la verità è che non esiste uno standard globale: quanto sarà disposta la gente a pagare per un servizio dipenderà da dove si trova nel mondo, dal suo stato finanziario, dal livello di interesse nei contenuti offerti e da molti altri fattori. Se il passo sarà fatto, e se la scelta pagherà in termini economici, vedremo dove saranno reinvestiti gli introiti, se nella remunerazione degli artisti oppure altrove.
Perché se è vero che non esiste un prezzo giusto di per sé, è altrettanto vero che esiste, invece, un prezzo sbagliato a prescindere, facilmente riconoscibile in tutta la sua ingiustizia. E veniamo al punto. Nelle scorse settimane, quando il caos iniziava a manifestarsi in tutta la sua forza dirompente, compariva su Spotify un nuovo bottone, la cosiddetta "tip jar" (il vero nome è Artist Fundraising Pick), una funzione – che in altri Paesi ha suscitato dibattito, qui da noi un po' meno – che, se attivata dall'artista, permette agli ascoltatori di fare una donazione diretta attraverso CashApp, GoFundMe o PayPal al musicista, per dimostrare supporto per la sua attività. A sua volta l'artista può decidere di donare la somma in beneficienza a varie realtà che operano sul campo durante questa emergenza o realtà particolarmente in difficoltà.
Le voci di dissenso, sia da parte degli artisti sia del pubblico, stigmatizzano la logica della mancia dietro all'iniziativa: si scarica ingiustamente la responsabilità del sostegno economico agli artisti sugli utenti, e non su Spotify, che dovrebbe prendersene carico, questa la linea. Secondo un punto di vista più benevolo, la "tip jar" servirebbe invece a ricreare quel legame magico con l’artista, come quando comprando un CD e (più o meno) sapevi di finanziare direttamente tale artista e tale etichetta.
Ma, e qui ci sentiamo di prendere parte nelle fila dei più critici, la "mancia digitale" confonde la raccolta fondi per beneficienza con la raccolta privata dell’artista, instaurando incertezza morale se raccogliere fondi per sé o per il bene comune. Inoltre sotto molti punti di vista rappresenta una "tacita ammissione del fatto che gli artisti non vengono pagati abbastanza", riportandoci, in un attimo, al punto di partenza: Spotify dovrebbe "pagare di più" gli artisti?
Che Spotify oltre a una forma di liberazione della musica – e di accesso facilitato ai brani – rappresenti un problema per la musica e per i musicisti non è affatto eresia sostenerlo. Da tempo gli artisti chiedono un modello economico rigenerato, perché il funzionamento stesso di Spotify ha silenziosamente eroso il valore monetario di quanto spetta a un artista per la sua musica.
Quando Spotify veniva lanciato pubblicamente nel 2008 si era da qualche anno conclusa la parentesi Napster, si moltiplicavano le piattaforme p2p e proliferava la diffusione dei file sharing illegale. Emule, Soul Seek, Kazaa, uTorrent e altri erano il chiaro segnale che qualcosa stava cambiando. Spotify, come Netflix, e tutte le altre piattaforme streaming, furono in grado di cogliere le nuove richieste e le nuove esigenze del pubblico e degli artisti, sfruttarono le nuove tecnologie, un clima favorevole e il vuoto normativo, e "distrussero" tutto, consentendo alla musica e all’industria dell’intrattenimento di approdare finalmente nell’epoca digitale.
Ma se Spotify ha stravolto il sistema nel giro di 12 anni, forse oggi è arrivato il momento di stravolgerlo a sua volta. Ma questa volta in un'altra direzione, dall'interno della piattaforma che ha esteso la possibilità di ascolto immediato a tutti, con l'obiettivo di modificare e migliorare alcuni aspetti di un modello che è stato in grado di spazzare via la concorrenza, ma che ora rischia (e in buona parte ci è già riuscita) di divorare anche il lavoro e la passione di troppe persone.
Chiudiamo con qualche domanda: cosa vogliamo da Spotify? Un artista e un ascoltatore può vivere senza Spotify? E cosa fare dopo? Risposte non ce ne sono per ora, ma bisogno di dibattere molto.
---
L'articolo È arrivato il momento di fare i conti con Spotify di Claudia Mazziotta è apparso su Rockit.it il 2020-05-19 14:39:00
COMMENTI (2)
Da artista di nicchia (direi quasi condominiale) che detiene i diritti dei propri brani, economicamente ho più interesse a cercare di far crescere la mia audience in piattaforme come Apple Music, Amazon Music Unlimited, Tidal ecc. dato che pagano decisamente meglio di Spotify.
Articolo bello e dettagliato, manca però un punto chiave da prendere in considerazione quando si riflette sull’argomento: Spotify non ti chiede una lira per distribuire la tua musica in tutto il mondo. E se la musica che fai piace, ha un algoritmo pressoché perfetto che ti fa arrivare a sempre più utenti. Parla uno assolutamente non contento di aprire i resoconti del mio distributore e vedere cifre sottozero nonostante alcune migliaia di stream per mese, ma i musicisti hanno altri modi per guadagnare. Ad un livello emergente Spotify va inteso come mezzo per farsi conoscere...Questo è solo un personale punto di vista, ripeto il tuo articolo è davvero ben strutturato. Abbracci