“Io attribuisco questo fenomeno alla scomparsa dei castrati e delle loro sublimi voci che tanto hanno ammaliato generazioni e generazioni di persone. Il loro virtuosismo, oggi scomparso, è stato così recuperato dai più bravi e dotati tra i cantanti nostrani”
Questa è la risposta che Rossini diede a Wagner quando il compositore tedesco gli chiese come mai la nostra penisola abbondasse di così tante belle voci: il “belcanto all’italiana” è una delle cose per le quali siamo più conosciuti all'estero ed è anche uno degli aspetti più radicati della nostra musica. Anche se la sua origine non è stata definita in modo cronologicamente preciso, il bel canto venne esplorato da Giuseppe Verdi nella sua "Trilogia Popolare" per poi essere espresso appieno da Donizetti, Rossini, Bellini e i loro coevi. Stiamo parlando di un particolare modo di cantare che prendeva alcune regole dello stile barocco (la ricercatezza tecnica, lo spingere verso i limiti la propria voce, il piacere dell’artificio) adattandole a generi sempre più popolari, come fece Claudio Villa con la musica leggera.
Dopo più di un secolo siamo passati da Verdi a Marrone (Emma, ovviamente), ma se si lascia da parte la pur rilevante fetta dei cantanti da classifica, oggi i musicisti italiani fuori dai circuiti commerciali sembrano allegramente fottersene del bel canto, o anche del semplice cantare in maniera intonata.
Una posizione deliberata che ancora una volta ha origini più vecchie, una frattura in stile querelle des Anciens et des Modernes degli urlatori contro i cantanti tradizionali, insomma la “battaglia canora” clou degli anni '50-'60 italiani: da un lato i giovani cresciuti a pane e rock'n'roll (Celentano, Clem Sacco, Mina e tanti altri), dall’altro i cantanti tradizionali come Orietta Berti, Nilla Pizzi, l’immancabile Claudio Villa. Di fatto da qui e dal sostanziale soverchiante successo dei primi sui secondi si è mossa buona parte della canzone italiana: l’importante da un certo punto in avanti è stato “gridare” nel microfono la propria gioventù e il proprio essere diversi e alternativi rispetto alla tradizione. Con il tramontare degli anni '60 e con la conseguente stagione dei cantautori e del progressive, il bel canto sembra essere diventato un inutile orpello del passato, fatta eccezione per il caso Demetrio Stratos, che attraverso serissimi studi tecnici tentò di esplorare nuovi modi di utilizzare la voce, complessi eppure dotati di una loro anima mediterranea, che sfortunatamente non sopravvissero alla sua morte. Certo alcuni cantautori come Lucio Dalla riuscivano a tenere assieme le due cose quasi miracolosamente, mischiando il jazz alla tradizione lirica e usando la voce come un vero e proprio strumento, ma a conti fatti De Gregori, Guccini e, per certi aspetti anche Battisti diedero molta più importanza ai testi che alla tecnica canora. Contemporaneamente artisti d’oltremanica e d’oltreoceano come Bob Dylan, Lou Reed e poi tutta la stagione punk spostarono l'asse su altri tipi di interesse e focus, relegando il canto ad una sorta di “nicchia protetta”. Le derive sintetiche degli anni '80, il rock dei ’90, e il revival plastificato degli anni 2000 hanno fatto il resto.
(Demetrio Stratos. Immagine via)
Questo ovviamente non implica che un artista sia davvero valido solo se dotato di una bella voce, o che la voce sia una condizione esclusiva e necessaria per valutare la caratura artistica di un musicista. Moltissimi esempi nella musica italiana degli ultimi 20 anni dimostrano che l'aspetto più squisitamente vocale non ha comunque impedito agli artisti, specie degli ultimi anni, di trovare una strada alternativa.
Nonostante una voce che non si può certo dire intonata o “toccata” dal dono del belcanto, Le Luci della Centrale Elettrica ha saputo raccontare, a suo modo, un’intera generazione - e probabilmente non avrebbe potuto farlo con quella forza e quella pervicacia se non proprio attraverso una “sguaiata voce” che aderisce perfettamente ai suoi testi tra l’onirico e il letterario. Allo stesso modo Francesco Bianconi dei Baustelle, anche se negli ultimi anni è nettamente migliorato grazie a delle lezioni di canto), nei suoi esordi era famoso per le sonore “stecche” prese durante i concerti. Eppure la carica magnetica dei testi, l’atmosfera seducente della musica e tutto l’immaginario colto, intellettuale e citazionistico della band facevano sì che quella voce imperfetta, “profonda come una tomba”, non passasse in secondo piano ma anzi fosse perfettamente funzionale alla resa dell’opera. Tra gli esempi più recenti c'è anche Niccolò Contessa de I Cani, il quale, specialmente all'inizio della sua carriera, era criticato per un’ugola spesso tremante e debole, ma va da sé che ciò non ha affatto impedito che I Cani venissero ascoltati, condivisi o seguiti più di molte altre band italiane. Insomma, è abbastanza evidente che la via verso una consapevolezza artistica non deve per forza passare per il belcanto.
(Niccolò Contessa de I Cani, Foto di Starfooker)
Eppure, al di là del semplice discorso sul “cantare bene” o sul “cantare intonato”, l'utilizzo della voce da parte di chi fa musica in Italia è qualcosa sulla quale vale ancora la pena ragionare. Perché sembra quasi che i musicisti italiani dei nostri tempi partano dal presupposto che il canto è l’ultima cosa alla quale un artista debba prestare attenzione: prima vengono i testi (che nel nostro paese ricoprono un'importanza quasi morbosa), gli arrangiamenti, lo stile, la produzione, il tipo di strumentazione e via così. Invece si può e si deve ancora coniugare la ricerca sui testi e sugli arrangiamenti ad una ricerca altrettanto profonda sulla voce. Come dire: tra l'esempio luminoso di un Antony Hegarty e i balbettanti esordi di un Francesco Bianconi o di un Niccolò Contessa, c’è ampio spazio di manovra.
In quello spazio si stanno muovendo alcuni nuovi artisti, uno su tutti Erio. Il nuovo acquisto di casa La Tempesta ha saputo, pur nell’ancor breve carriera musicale, porre alcuni punti fermi, fortissimi, a livello stilistico, come quelli di una ricerca sonora e vocale interessantissima, con un mix di Sigur Rós e Bon Iver, inframmezzati da notevoli derive sperimentali e naturalistiche che hanno destato grande interesse. In "We’ve Been Running", uno dei primi singoli estratti dal suo album "Für El" ci si accorge bene di come l’artista toscano sappia tenere assieme tutto: la sperimentazione, il belcanto, la voce come strumento, l’elettronica, il folk e i “fantasmi del proprio spirito”.
Andando avanti su questa strada si può sicuramente citare anche Iacampo, che l’anno scorso in "Flores" ha dato un ottimo saggio di cosa voglia dire proporre un cantautorato raffinato e pieno di riferimenti anche alti, senza per questo doverlo fare con una voce poco curata. Anche il folk elettronico di Wrongonyou è in grado di miscelare una proposta musicale e artistica seria e assolutamente consapevole con un cantato gradevolissimo, un timbro originale e molto coinvolgente (sarà forse per questo che la sua “Killer” viaggia verso le 100.000 visualizzazioni su YouTube?). Nella stessa direzione vanno anche molti altri artisti italiani: da Joan Thiele ai Kutso, le declinazioni musicali in cui la parte del canto è molto curata ce ne sono molte, eppure non abbastanza.
La stagione del canto barocco non tornerà più (e per fortuna, con buona pace dei produttori di belletto e parrucconi) ma in Italia si può, anzi forse si deve, tornare a cantare bene anche fuori dagli urli sguaiati degli amici di Maria o dei gorgheggi stereotipati de Il Volo. Un belcanto più consapevole, meno borghese e formale e per questo più autentico: con un po' di impegno, si può fare.
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L'articolo La scomparsa del belcanto: perché la voce nella musica italiana conta sempre meno? di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2016-06-27 12:30:00
COMMENTI (1)
salve, sono abbastanza d'accordo, soprattutto se non ci si ferma a Claudio Villa. In Italia credo che il patrimonio del "bel canto" sia molto ampio, ben accettato nel mondo ed anche gradevole. Anche se negli anni '50 e '60, ed anche giustamente, la generazione nata nei '40 ha completamente invertito l'ordine del gusto musicale. Io sto conducendo una approfondita ricerca sul cantante Luciano Virgili dell'Ardenza (Livorno) e, può piacere o non piacere, quando si parla di "bel canto" si parla di almeno un trentennio di primati nel mondo, della nostra cultura, genetica, e storia musicale italiana, che credo sia giusto almeno tenere in considerazione.
Saluti e grazie per l'articolo, che quanto meno permette e dà modo di ricordarci di questo.