Se questo articolo fosse una canzone sarebbe stata scritta dai Misfits, e si chiamerebbe Dig Up Her Bones. Come il protagonista del brano del gruppo punk più di culto che ci sia, colpito da una folle passione, mi sono recato quasi inconsciamente nel cimitero del passato, per esumare il ricordo di uno dei migliori concerti degli ultimi tempi a Istanbul. Siamo sulla sponda asiatica della vecchia Costantinopoli a Kadıköy, il quartiere meno conservatore e più alcolizzato della megalopoli turca. Qui è quasi impossibile incontrare per strada una ragazza che indossi il velo. È la fine di un gennaio non particolarmente freddo e il Coronavirus non ha ancora risucchiato la vita notturna nel buco nero dell’incertezza che avvolge questo presente malato.
Per arrivare al luogo del concerto bisogna perdersi in un labirinto di stradine semibuie, dove baffuti venditori gridano dietro i banchi del mercato ancora stracolmi di olive, frutta e formaggio, posizionati in bella vista per attirare i clienti, nonostante siano le dieci di sera. Palazzi ottomani scoloriti e cadenti si alternano ai minareti delle moschee e ai campanili delle chiese armene o greco ortodosse. È venerdì, ma in pochi da queste parti hanno partecipato alla preghiera musulmana settimanale. Per le strade centinaia di persone di ogni età affollano bar alla moda o chioschi che affettano e arrotolano gli ultimi döner kebab della giornata. Alcuni ragazzi approfittano del barbiere ancora aperto per andare a ritoccarsi il taglio di capelli, da sfoggiare in qualche club aperto fino alle prime luci dell’alba.
Il Karga è uno dei locali più noti di Istanbul. Entrando si viene storditi da un’onda di musica dub che si mescola al fumo di sigarette e le grida degli avventori già ubriachi. Per arrivare alla sala dei concerti si sale una ripida scala in legno dove si incontrano metallari, ragazzi coi dreadlocks e adolescenti con lo skateboad sotto braccio. Il gruppo principale di questa serata ha un nome assolutamente turco, Hakan, ma viene da Bergamo.
Hakan, in turco si pronuncia con una “H” molto aspirata, ma in italiano tutti sbagliano e dicono “(H)Akan”, proprio come i telecronisti sportivi pronunciavano il nome del calciatore turco più famoso della penisola. Hakan Şükür (ex mito del calcio nel Paese della mezzaluna, poi politico e infine nemico numero uno del governo di Erdogan, ndr), è infatti uno dei riferimenti culturali del trio di Bergamo. In generale con Turchia e pallone stanno abbastanza in fissa, come si evince dai nomi d'arte che i tre componenti della band si sono dati: Belözoğlu, Baştürk e Ergün.
Sui loro dischi, in vendita al banchetto nel locale, sfoggiano locandine di film turchi anni ’70. E suonano punk-rock. Questo cortocircuito culturale esplosivo è il motivo per cui ho preso un traghetto dalla sponda europea di Istanbul, dove vivo, ho attraversato il Bosforo e sono arrivato fino a qui.
Lo stanzone dove si tiene il concerto non è molto grande, può ospitare circa 200 persone, ed è pieno a metà, mentre sale sul palco il primo gruppo. Sono dei ragazzi turchi che ho già visto suonare in varie occasioni: il punk in Turchia è cosa rara e spesso le stesse persone si alternano in varie formazioni. Si chiamano Project Youth e propongono una miscela di punk che ricorda i gruppi britannici attivi alla fine degli anni ’70, tipo i Buzzcocks. Non mi entusiasmano molto e nemmeno il pubblico sembra particolarmente colpito. Capisco che cantano in inglese solo quando annunciano la loro canzone finale, si intitola Sharia Hurts.
La sala comincia a riempirsi davvero quando salgono sul palco gli Hakan di Bergamo. Iniziano a suonare senza presentazioni, sparando dalle casse una miscela punk tanto essenziale quanto orecchiabile. Velocissimi ed estremamente precisi, incantano i presenti con melodie dolci, ma rumorose e distorte. Benedetti con l’acqua santa che sgorga dalla fonte sempre viva dei Ramones, il loro suono è modellato sul pop punk di Queers e Screeching Weasel, condito di riferimenti al beat anni ’60. Per quanto questo modello sia stato abusato negli anni, è sorprendente come ogni canzone suoni assolutamente fresca.
Dopo qualche canzone, sotto il palco esplode una danza sudata che si trasforma in un groviglio di corpi. Qualcuno mi vola sopra la testa, ma riesco a non spandere troppa birra per terra. Alcuni tra il pubblico esprimono il loro sincero apprezzamento gridando regolarmente “vaffanculo pezzo di merda” con una pronuncia molto turca, tanto indescrivibile quanto irresistibile. Dopo mezzora si rompe anche un amplificatore e finiscono la canzone solo con basso e batteria. Quaranta minuti scarsi di concerto. Niente bis.
Torno a casa a notte fonda con uno dei loro dischi sotto braccio. Si chiama Hakan III e mentre lo ascolto, il giorno dopo, penso che sia il loro disco migliore anche se i due precedenti non sono per niente male. Hanno appena pubblicato un 7’’ dove suonano una formidabile cover di Mr. DNA dei Devo. Il punk a Istanbul è davvero cosa rara, ma quando arriva riserva sorprese indimenticabili, soprattutto se made in Bergamo.
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L'articolo Berghem Punk Islam: il folle live degli Hakan a Istanbul di Filippo Cicciù è apparso su Rockit.it il 2020-04-10 10:15:00
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