Regola numero due del fight club dei documentari musicali: non far uscire il tuo in concomitanza con quello di Robbie Williams, poiché le persone potrebbero fare il paragone e ne usciresti con le ossa rotte. Ecco la triste sorte accaduta a Blanco col suo Bruciasse il cielo, uscito oggi su Prime Video, che racconta la storia di un ragazzo che in un paio d'anni è passato dall'essere un minorenne un po' - ma nemmeno troppo - ribelle a vincere Sanremo con Mahmood, diventare un idolo prima dei teenager e poi del pop tout court, ad incidere un brano con l'eterna Mina e a prendere a calci i fiori dell'Ariston, ma soprattutto a spingere il secondo disco, Innamorato.
Un prodotto promozionale curatissimo più dal punto di vista estetico che da quello della narrazione, che sembra un videoclip di un'ora scarsa, adattissimo ai fan ma molto meno a quelli che passano di lì per caso, che racconta il presente, e quello è sempre in mutazione, specie se come Blanco, hai vent'anni. Il problema degli instant doc sta proprio lì, nel fatto che spesso tali prodotti vengono fatti troppo presto e non sono ancora supportati da una storia che sia tale, con l'ascesa, il successo, le cadute, le vittorie e le sconfitte, la saggezza accumulata nel tempo, tutto quello che ci si può aspettare da un film biografico. Blanco, come Robbie Williams, ha avuto successo istantaneo, senza neanche passare la maggiore età, ma questa è l'unica cosa che lega i due personaggi.
Bruciasse il cielo è il tipico prodotto che sarebbe stato bene come contenuto multimediale di un cd-rom o come dvd/bluray solo per chi compra il disco. Un prodotto per i fan, insomma, che amano passare dei minuti insieme a Riccardo, che non è donato di natura di un eloquio particolarmente brillante e quindi rischia di annoiare anche quando parla dei momenti salienti della propria instant carriera. Niente da dire sul Blanco artista (anzi ne diciamo bene), probabilmente è quello che nella sua generazione ha raggiunto l'apice del successo in minor tempo possibile, ma la musica raccontata come in video non è una gara di velocità, ecco perché alla fine il prodotto funziona poco. Si ha la netta impressione che il meglio - o il peggio - debba ancora venire e che si parli solo della pistola dello starter, del fuoco senza la tempesta. Come già detto, i fan lo adoreranno: c'è Blanco a torso nudo per l'80% del video, ci sono gli spezzoni dei suoi mega concerti, ci sono un sacco di inglesismi e di milanesità congenite, tutte patinate da na fotografia che sembra fare il verso ai video di moda. Non è un caso che sia stato presentato al Metropol di Dolce&Gabbana.
Purtroppo, lo stesso giorno è uscito Robbie Williams, una serie in quattro episodi diretta da Joe Pearlman e prodotta da Asif Kapadia, che finora ci ha raccontato Senna, Maradona e Amy Winehouse, un vero specialista, e Blanco è come sparito. Ok, è chiaro che non possiamo mettere a confronto il peso specifico dei due artisti, sarebbe come paragonare il documentario su Beckham a uno su Immobile, però quella che salta all'occhio è proprio la narrazione: il Robbie di mezza età, coi capelli bianchi e gli occhi ancora vivi che sta in camera, steso sul letto in canotta e mutande, a riguardare da un laptop le migliaia di ore di backstage, dai tempi dei Take That alla ribellione, alla carriera solista e alla droga, alla paura, alle paranoie, alla depressione, il tutto mentre continuava a ridere a favore di camera in concerti sempre più grossi, fino ad arrivare al top del gioco, quantomeno in Europa. Immagini mai viste, una storia che segue cronologicamente i fatti, commentata dallo stesso Robbie che parla di sé con estrema sincerità, e quello che vediamo spesso ci disturba, non è per niente fan friendly.
Ciò che manca ai molti instant documentary dei volti del nuovo pop italiano - Mahmood, Blanco, Elodie - è una storia o, se c'è, il modo migliore per raccontarla, senza stare troppo a pensare cosa gradiranno i fan, a quale sia il profilo migliore, senza stare a raccontare cosse già uscite in milioni di interviste, senza guardare interminabili minuti di esibizioni già viste. Una storia di vita davvero potente, come quella di Emma alle prese con il cancro, che racconta bene nel docu Sbagliata - Ascendente leone, oppure quella di Elodie che presenta il quartiere da dove è partita, le sue origini di borgata nel video di Noisey. Sincerità sputata in faccia, il miglior modo per immedesimarsi nelle storie senza dover essere per forza fan sfegatati.
Di certo il documentario musicale è un genere che funziona, altrimenti non farebbero così tanti prodotti del genere. Di sicuro, il successo dei Ferragnez su Prime ha dato una spinta per seguire il format del pop (più o meno) giovanile italiano, con i film fiction della Pausini e gli instant doc, mentre sulle altre piattaforme si cerca un altro pubblico - Netflix coi grandi documentari a puntate internazionali e occasionalmente con qualche guizzo italiano tipo Il supervissuto di Vasco Rossi, e Disney+ che usa tutta la potenza di fuoco per le star di prima grandezza, da Taylor Swift a Miley Cyrus passando per Billie Eilish.
In questo mare magnum di storie e di percorsi a volte simili, nel caso di Robbie Williams decisamente singolare, il documentario di Blanco non lascia granché il segno. Probabilmente sarebbe utile arrivare a un prodotto del genere dopo una maturazione artistica, per raccontare alti e bassi di una carriera, altrimenti rimane un documento carino e niente di più, su di un personaggio di per sé già sovraesposto.
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L'articolo Per fare dei documentari musicali bisognerebbe avere davvero qualcosa da raccontare di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2023-11-09 10:25:00
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