Su Instagram, tra ieri e oggi, è partito un nuovo trend. La 10 year challenge consiste nel giustapporre una foto del decennio scorso ed una recente, condividere i risultati, e trarre le proprie conclusioni: ho fatto un glow up? Prima ero cringe? Sono semplicemente vecchio?
Ecco, io dieci anni fa ad esempio postavo questo:
Avevo quattordici anni, ed i Green Day erano la mia cazzo di vita. Il trio californiano è stato per me la pipeline attraverso cui, come il sorcio di Giù per il tubo, nell’arco del decennio a seguire sono precipitata sempre più a fondo dentro sta storia del punk, dei collettivi e degli spazi occupati, delle band autogestite e del culto del DIY al servizio di una musica che sia rumorosa, inclusiva, importante. Per uno strano effetto farfalla, tutte le storie magiche che ho visto nascere e morire in questi anni di rinascimento alternativo nel sottosuolo milanese, le ho viste perché a mio tempo fui concepita dai Green Day.
I più famosi di tutti, forse i più venduti di tutti, probabilmente ciò che di più diametralmente opposto possa esistere rispetto al punk come lo concepisco e respiro ora. Un sacco di late millennials e Gen Z come me (e come il mio fratello e fotografo Luca) nascondono le medesime origini sotto spessi strati di credibilità, ma i testi di Dookie se li ricordano ancora per memoria muscolare.
10 year challenge. Dopo la cancellazione last minute del concerto dei Green Day agli IDays di Bologna che mi spezzò il cuore (causata, leggenda narra, da un’intossicazione alimentare di Billie Joe Armstrong in seguito ad una scorpacciata di cozze), questa sono io ieri:
E mentre lascio la me della terza media a gongolare e fangirlare, vi spiego come abbiamo fatto ad accedere all’evento blindato dei Green Day del 7 novembre, parte di un tour in soli club che anticipa il nuovo album Saviors e festeggia due compleanni: il trentennale di Dookie e il ventennale di American Idiot.
Per fare ciò dobbiamo viaggiare di nuovo nel tempo, precisamente a due settimane prima del concerto. Siamo al COX18, storico centro sociale sul naviglio, quando ci giunge la soffiata: "Sapete chi viene ai Magazza? Raga, i Green Day". La voce è quella di P., un cristiano inapprocciabile fuori ma orsacchiotto dentro che oltre ad essere esponente del punk anarchico da prima che io e Luca fossimo un pensiero è anche uno che in questo campo dà le info certificate. Quella singola frase è abbastanza per innescare la nostra missione del mese: entrare a questo concerto, fotografarlo, e raccontarlo.
Sapevamo che non sarebbe stato facile, ma diamine! Non sembrano esserci accrediti, pass stampa, pass foto, pass miracolati, gratta e vinci. Un golden ticket per la fabbrica di cioccolato è sicuramente più accessibile. Al momento dell’uscita dei biglietti, il giorno prima dell’evento, non basta il tempo di aprire la schermata d’acquisto allo scoccare del minuto di lancio per beccarsi un bel SOLD OUT dritto in faccia come un ceffone. Ma io e Luca siamo ragazzi dello screamo italiano, e i La Quiete ci insegnano che la fine non è la fine.
Arrivano le 20:00 del 7 novembre, fissiamo l’insegna dei Magazzini pianificando già quello che faremo della nostra serata una volta sgamati e sbattuti fuori dal concerto. La fila per entrare fa il giro dell’edificio, 1000 persone – un pubblico adulto, composto, infreddolito. Riuscire ad entrare non è neanche remotamente considerato, abbiamo i nostri canali ma non ci promettono nulla di buono. Come noi, un gruppetto di curiosi si appollaia dietro la transenna sperando di farcela in qualche modo, con l’occasionale vociare di elemosina per biglietti in più e fantomatiche liste d’accredito.
Proprio mentre io e Luca stiamo entrando nella fase delle menzogne di consolazione ("va beh, alle brutte ce li vediamo all’Ippodromo, va beh, comunque 104 euro non li avevamo, va beh, ci andiamo a mangiare una pizza") che scattano i 30 secondi decisivi in cui tutto accade. Si apre una falla nel sistema, vi basti questo: il punk ha vinto anche stavolta. La verità è che avrebbe vinto in ogni caso, anche se non fossimo riusciti ad entrare, e continuerà a vincere con ogni gruppo di amici scapestrati che s’ingegna per la causa.
Il grosso è stato fatto: non ci rimane che volare basso fino alla fine. Giusto? Sbagliato, perché Luca è stato abituato male da questi ultimi 2 anni di foto nell’hardcore, quindi quando alle 21 spaccate parte American Idiot mi sparisce nella folla per riapparaire sulle spalle di uno sconosciuto, sparaflashando a raffica durante Holiday.
Non mi dilungherò sulla pacca che i Green Day continuano ad avere a prescindere da che suonino davanti a 1000 o un milione di persone, dagli anni che scorrono e dalle bocche del pubblico che smettono di cantare ogni volta che il brano risale agli ultimi 5 anni. Non sta di certo a me ribadire che la maggior parte della scaletta di ieri, lunga oltre 2 ore, è patrimonio del rock contemporaneo e continua ad ispirare, anche inconsapevolmente, ogni ragazzino che imparerà un power chord.
Ma rivolgendomi alla me di 10 anni fa, ho una notizia cattiva ed una buona: i Green Day non sono più una band per pischelli, né per alternativi. La maggior parte delle persone (molte in videochiamata con familiari ed amici) si innervosisce se la sfiori per sbaglio ballando, tira su il cellulare per quelle famosissime, e si gasa quando il frontman solleva la sciarpa del Milan. Tu però, ti commuovi ancora quando fanno Whatsername, e il testo lo sai ancora tutto.
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L'articolo Cari Green Day, siamo stati più punk di voi di Vittoria Brandoni è apparso su Rockit.it il 2023-11-08 16:28:00
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