Se si parla di “band di culto”, ognuno ha una propria idea di cosa voglia dire. Di conseguenza, a chi si possa concedere tale etichetta e a chi no. Per alcuni i Not Moving, ad esempio, sono una band di culto. Per altri i Kirlian Camera. Federico Fiumani, una decina di anni fa, in una bella intervista nel quartiere di San Lorenzo a Roma, disse che i Diaframma “hanno sempre avuto un pubblico di culto ma molto affezionato”. C'è chi, forse un po' ingenuamente, continua a ripetere da anni che i Verdena sono una band di culto. Chi, con più cognizione di causa, i Massimo Volume - al netto degli speciali televisivi. C'è una ragazza che conosco che “di culto” considera Marco Masini, magari solo perché nel suo gruppo nessun altro lo ascolta. Tutti hanno ragione, a loro modo.
Se poi lo chiedete a me: io non so darvi una risposta. Molto dipende dal giorno, dal tempo, dal caffè, di certo dall'interlocutore e voi siete troppi per darvi quella risposta univoca e comprensibile. Di sicuro per la testa passano (e mi passeranno sempre) i Confusional Quartet. Non ci sono paragoni in Italia, credo nessun gruppo possa tenere il passo dei bolognesi, o gli si avvicini minimamente. Fermi a livello discografico dal 1980, con quel Confusional Quartet su Italian Records, celebrato, osannato e citato in ogni dove da che ho memoria come effettivo oggetto di culto (le quotazioni si aggirano su i 200 euro) post-punk tendente alla no-wave, tornano visibili ai miei radar solo nel 2011 quando la Hell Yeah Recordings! pubblica Confusional Quartet, più orientato al jazz-rock.
Spariscono di nuovo. Per tornare nel 2014 su Expanded Music con Confusional Quartet (noto come Play Demetrio Stratos, essendo di fatto un tributo), stavolta più avant-garde. Poi di nuovo il nulla. Poi a sorpresa, nel 2021, ri-esce Confusional Quartet del 1980 per la Italian Records ma con veste diversa e una scaletta allungata e stravolta. E' di questi giorni, invece, la notizia di un nuovo disco, manco a dirlo Confusional Quartet, uscito per Trovarobato. A questo punto, pur non essendo Bill Drummond e non conoscendo discordianesimo e affini, vi dovrebbe essere abbastanza chiaro come il concetto di “band di culto” nei bolognesi superi qualsiasi possibile raffronto, e quale sia la differenza tra loro e tutti i nomi fatti qui sopra e gli altri possibili (a parte la clandestinità).
Che i primi effettivamente non hanno mai fatto niente per essere trovati (anche solo dando i titoli ai dischi) e hanno fatto un sacco di musica (anche proprio nel senso di comporla e metterla in circolo: se è noto il remix del 2005 dei Scuola Furano, molti sostengono che i Disciplinatha siano stati in qualche modo influenzati da Guerra In Africa anche non avendola mai sentita) prima di diventare famosi come band di culto, mentre gli altri hanno sempre aspirato a un pubblico sempre più numeroso e pensato (loro o chi per loro) di poter essere considerati di culto a capriccio, semplicemente perché un tempo, non ora e non qui, lo sono stati sul serio. Insomma, il tempo passerà pure ma i Confusional Quartet non mollano: sempre protetti dalla loro enigmatica aurea, sempre sospinti da una propria interiore utopia.
Del resto lo stampino è sempre stato lo stesso di Skiantos, Stupid Set e Gaznevada, anche loro utopici come pochi. La copertina del nuovo disco è scurissima, minimalista eppure intensa come quella di White Light/White Heat (caro, dolce Reed) e la sua frase è “La vera musica non è quella che dice la rivoluzione ma quella che ne parla come una mancanza”. “Siamo felici di rappresentare ancora oggi l'idea di un lavoro artistico che nasce da un collettivo. E' questo atteggiamento libero, oltranzista, a-progettuale, senza finalità commerciali che rende i nostri lavori poco etichettabili”.
Con queste semplici parole mi accolgono Lucio Ardito ed Enrico Serotti, rispettivamente basso e chitarra dei Confusional. E aggiungono “A volte capita che ci dicano che siamo miti, mai per noi i miti sono altri”. Eppure ogni qual volta ci si imbatte in una loro intervista, fateci caso, si finisce per parlare sempre al passato, di quaranta e rotti fa, che da un lato può anche starci, aumentando la curiosità intorno al gruppo, ma alla fine sembra un po' come quelli che si riferiscono ai Marillion come quelli di Fish o agli Iron Maiden come quelli con Paul Di'Anno.
Allo stesso modo, appare semplicistico ridurli a quelli con le tute come i Devo e il festival Bologna Rock, e il tour con Lydia Lunch, e il Movimento studentesco e anche basta. “Non si può fuggire dalla storia - mi sorride Lucio - ma siamo vivi e dunque contemporanei. Del resto, da quando una decina di anni fa siamo tornati a suonare assieme non abbiamo mai cavalcato l'onda revivalista, ma abbiamo prodotto album nuovi e dal vivo facciamo solo due brani di quegli anni”.
Indubbiamente dovrebbe fare riflettere, così come il fatto che ogni disco fatto fa credere sempre di sapere come suonerà, invece ogni volta la sorpresa si rinnova. Non so quanto innocentemente, io lo attribuisco al fatto che siano cresciuti con il punk del '77 e questa origine tuttora li spinga a remare contro e cambiare le carte in tavola. “Hai detto bene, innocentemente. Per lavorare come collettivo, in cui quattro menti diverse si sciolgono in un unico flusso musicale, bisogna abbandonare l'ego ed accettare gli eventi che nascono dal processo stesso. Quello che esce, quando esce, diventa parte del lavoro per una specie di tacito consenso. Quando qualcosa funziona, lo capiamo mentre suoniamo”.
È vero, e l'improvvisazione ha sempre giocato un ruolo fondamentale, infatti in origine cambiarono il nome da Confusional Jazz Rock Quartet si dice proprio per non vincolarsi troppo. Con il rovescio della medaglia che si è finito per inquadrarli con così tanti termini che si fatica a concretizzarli in uno. Post-punk, new wave, no-wave, art-rock, alt-rock, jazz-rock, avant-garde, ho letto pure fusion e prog-rock. Qualcuno li definì persino “i più diversi tra i diversi”. Mi guardano divertiti e poi mi rispondono placidi: “Il nome della band è abbastanza autoesplicativo direi, no? Confusional Quartet nasce dall'idea di giocare con la musica, coi generi, con gli stili, anche con le mode se vuoi, ma in un modo, crediamo, molto personale. In sostanza facciamo quello che ci pare e piace!”.
Ci sta. Non a caso nell'ultimo album dopo l'iniziale Autobomba, pezzone che sembra quasi una versione deluxe di Bologna Violenta, arriva Cralla che, con un cantato in cinese, introduce l'aspetto inaspettatamente world di questo disco, che ritroviamo nelle successive Funkistan e Musikladen. Il nome facile da fare in questi casi è Talking Heads o Peter Gabriel ma immagino ci sia dell'altro. “Ci fa piacere che tu abbia citato Autobomba, ci piace molto. E dici bene: in questo disco ha alcuni elementi etnici, ma anche funk, in qualche caso anche vagamente prog. Non è una cosa che abbiamo cercato noi: sono uscite così”.
Essendo di Ostia un pezzo di cuore l'ho lasciato su Ostia Lido che, oltre ai rimandi a certe colonne sonore e un po' alla Fuzz Orchestra (anche loro in parte influenzati dai Confusional Quartet), attraverso Pasolini, ci porta a chiederci quale sia il pensiero del gruppo, tanto più che più avanti apparirà anche la voce di Carmelo Bene e un vago richiamo ai Måneskin (“Figurati, un riff è un riff! E comunque quello a cui ti riferisci è nato prima!”). Enrico fa chiarezza: “Siamo nati da un ambiente libertario, e questa cosa è rimasta, non solo nella metodologia creativa, ma in certe istanze che si possono definire anche politiche. Essendo una band strumentale, senza supporti verbali, forse la cosa più politica che esce dal nostro lavoro è la resistenza alle leggi del mercato. Pasolini, allo stesso modo, era lucido in modo incredibile nel suo antagonismo. Se ascolti le sue parole di cinquant'anni fa, che abbiamo inserito in Ostia Lido, ti rendi conto di quanto il tempo storico viaggi inesorabilmente al di sopra delle nostre vite di singoli esseri umani”.
Non sorprende che escano per la stessa etichetta di Iosonouncane, tra i nomi più interessanti degli ultimi anni e un pezzo come Guido, quello con la voce di Bene, non starebbe affatto male in una playlist che lo comprendesse. “Hai ragione - dicono con affetto e ammirazione - Quando un progetto alternativo italiano riesce a uscire dai confini è una bella cosa. Sempre. Ognuno di noi quattro ascolta cose molto diverse, più o meno contemporanee.
Ma diciamo che cerchiamo anche, nel nostro piccolo, di dare un contributo”. Cosa che gli riesce ancora bene, visto che certe loro melodie, come l'energia e le idee li trasformano da sempre in una band appetibile anche (se non soprattutto) da altri musicisti che poi (magari) le usano per un pubblico più vasto e (a volte) commerciale. “Se come diceva Burroughs il linguaggio è un virus, figuriamoci la musica, che è un linguaggio astratto”, mi dicono sereni. Ma poi precisano: “Oggi più che mai siamo tutti immersi in un grande caos, una specie di incoscienza collettiva. Si naviga allegramente in acque agitate, alla mercé di gorghi e correnti. A parte ciò fa sempre molto piacere essere ascoltati da altri musicisti”.
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L'articolo Confusional Quartet è la resistenza alle leggi del mercato di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2022-10-21 16:00:00
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