Argentino è quel termine, forse poco usato ai giorni nostri, che indica il suono dell’argento. E argentino è l’esatto aggettivo che mi è balenato in mente qualche settimana fa mentre ascoltavo distratta Discover Weekly, il mix di musica nuova che molto abilmente Spotify compila per me ogni settimana.
Il suono, particolarissimo, era quello di Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou, pianista etiope della quale conoscevo in quel momento il viso, immortalato sulla copertina della raccolta Etiopique dalla quale proveniva il brano.
Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou è nata il 12 dicembre del ‘23 ad Addis Abeba, in Etiopia, ed attualmente abita a Gerusalemme. Suo padre era un importante intellettuale etiope, e durante l’infanzia studiò violino e piano in Svizzera, in Egitto e in Etiopia. La sua famiglia fu deportata nel 1937 sull’isola dell’Asinara e poi a Mercogliano (provincia di Avellino) durante l’invasione italiana del paese. Era destinata a studiare musica in Inghilterra, ma l’imperatore Haile Selassie le negò una borsa di studio, cosa che la fece cadere in depressione e la spinse alla decisione estrema di ritirarsi a vita monastica e prendere i voti. Nel 1948, Guèbrou diventò una suora cattolica, ma continuò a comporre particolarissime pièce per piano: il suo stile proto-jazz è influenzato dal pop etiope come dai canti di chiesa africani, senza dimenticare la dieta europea a base di Satie, Debussy e Chopin con la quale si è evidentemente formata. Un suono unico e ipnotico che ha interrotto all'istante qualsiasi cosa stessi facendo in quel momento.
Poco dopo essermi resa conto che il mio nuovo disco preferito era stato composto da una suora etiope (!) ho capito una cosa fondamentale: una fulminazione così improvvisa e all’apparenza casuale è possibile solo grazie alle precisissime trame di un algoritmo. Seppure grazie a miracolose congiunture astrali avessi incrociato per caso la musica di Guèbrou su qualche rivista di cultura araba o africana (Brownbook, ad esempio), o se qualche amico me ne avesse parlato entusiasta durante un aperitivo e io mi fossi appuntata questo nome impronunciabile sul bloc notes dello smartphone, probabilmente mi sarebbe passato di mente solo qualche mezz’ora dopo.
So di essere impopolare, ma i consigli musicali degli amici (o addirittura del negoziante di dischi) che per molti anni sono state le solide e leggendarie mura fondanti della scoperta musicale, semplicemente non bastano più.
Qualche giorno fa, His Clancyness ci raccontava i contorni di quella che lui definisce la "cultura dell’isolamento”: “Siamo tutti culture-freaks (...) leggiamo costantemente, passiamo notti su Wikipedia da link a link, statistiche, racconti, interviste, ma poi tutto spesso si riduce in un semplice accumulo di nozioni. Non ne parliamo tanto a voce, viviamo la cultura in maniera completamente isolata e questo non aiuta la fruizione di idee nuove”
Non abbiamo modo di parlare a lungo di qualche nuova scoperta perché di nuove scoperte ne facciamo dieci al giorno, o perché magari pensiamo (a torto o a ragione, non lo so) che condividere su Facebook o su Twitter equivalga davvero a mostrare e condividere qualcosa con i nostri amici e conoscenti.
E se anche volessimo cercare uno scambio, o un contrasto, forse non ci riusciremmo: è molto probabile che i nostri amici (o almeno, quelli che appaiono con costanza sulle nostre dashboard) fruiscano dei nostri stessi prodotti culturali, abbiano ascoltato in questi giorni il nuovo disco di Bon Iver e letto lo stesso identico reportage del Guardian su come la droga abbia avuto un ruolo fondamentale nel Terzo Reich.
Un algoritmo (almeno per ora) non ha bisogno di rincorrere l'argomento del giorno, conosce con perfezione matematica i miei gusti ed ha accesso alla quasi totalità della musica mai prodotta al mondo: per quanto amorevole, è difficile che un amico possa competere con la qualità di certi consigli musicali.
Era meglio quando le persone avevano modo di parlare insieme e con calma di un nuovo disco che avevano ascoltato attentamente per settimane intere, senza fare altro? Probabilmente sì, ma che ci piaccia o meno non viviamo più in questo modo. Tirare avanti con il continuo disgusto dei tempi moderni è un'inutile dispersione di energia: preferisco venire a patti con il fatto che i consigli musicali di Spotify sono più stimolanti degli altri, e brindare con gli amici al genio di Emahoy Tsegué-Maryam Guèbrou.
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L'articolo Ai consigli musicali degli amici, preferisco quelli dell'algoritmo di Spotify di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2016-10-05 14:48:00
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