“Scusa ma che succede adesso?”, urla una signora dal finestrino di una Cinquecento al suo vicino di macchina, bloccata in mezzo al traffico di Roma, sul Lungotevere. “Il concerto di Gazzelle, signo!” è la risposta che riceve da un ragazzo accanto a lei, camicia bianca e Quella Te sparata a tutto volume nell’auto. Bene, ora prendete questa scena e moltiplicatela per qualche migliaio: potrebbe rendere, in parte, l’idea di quello che si è generato intorno allo Stadio Olimpico.
Questo non è un week end come tutti gli altri per il nostro caro Gazzelle, perché tra lui e la quotidianità ci sono di mezzo 47000 persone che hanno riempito uno dei luoghi più importanti della città. Sei anni dall’esordio, sei anni di concerti e dischi sempre in classifica, sei anni in cui Flavio Pardini è diventato uno degli idoli della scena “indie” o “itpop”, che dir si voglia. Adesso, lo Stadio Olimpico.
Quello che mi lascia stordita dal primo istante in cui metto piede alla ricerca disperata dell’ingresso è proprio la folla che si ammassa già da qualche centinaio di metri prima di arrivare davanti ai cancelli; gruppi di tutte le età, ragazzi, ragazze, famiglie, tantissime coppie. Ovunque. Una volta dentro, tutto è amplificato dalla grandezza del posto e dagli spazi che si riempiono rapidi; il parterre è già del tutto occupato dai fedelissimi, con bandane in testa e striscioni con scritte che vanno da “6 ICONICO!”, “FLAVIO LIBERACI DAL MALE” e il classico ma sempre di moda “TI AMO”.
La domanda che continua ad assillarmi da ore, però, non mi lascia andare neanche quando la musica in sottofondo comincia a sfumare, lasciando scorrere via Help dei Beatles nel rimbombo delle chiacchiere. Cosa simboleggia un concerto del genere per l’indie? A che punto siamo nel 2023?
Gazzelle è il primo ad arrivare fino a qui, il primo a poter dire “Ciao a tutti, ci sono sul serio, non sono solo un numero in classifica e il mio non è un sogno”. Quello che più stupisce è che sembra arrivare su quel palco proprio quando quello stesso mondo da cui si è formato e che l’ha lanciato sembra essere scomparso, crollato su sé stesso dopo anni di mitizzazioni e serate in giro per l’Italia che proprio del termine “itpop” fanno la loro bandiera. Che sarebbe stato lui il primo, va ammesso, poteva essere prevedibile; quello che Superbattito ha creato intorno a sé è stato un movimento unico intorno al 2017/2018.
Amato e odiato, certo, ma non è questo il punto a cui voglio arrivare. Creare un mito a partire dall’iconicità delle canzoni non è sempre stato un meccanismo funzionante in Italia, dove solo il grande pop sembra riuscire a raggiungere un luogo del genere, e qui sembra esserci stata una perfetta via di mezzo, che ha conciliato il successo di Flavio. Nel suo caso, il diventare un fenomeno (per quello che scrive, per la ‘tristezza’ che l’ha portato al centro di meme di ogni genere, per il personaggio che ha creato) trova un’evoluzione naturale nell’essersi spostato, dopo lo smorzamento della grande onda, verso una maggiore classicità resa viva da una personalità forte.
Mentre ancora rifletto sui massimi sistemi intrecciando la storia di Gazzelle a quella della musica italiana, si sente un boato; compare la scritta Ciao Raga sullo schermo, e la sua festa inizia. Giacchetta bianca. Occhiali da sole. Gin Tonic vicino all’asta del microfono. Un po’ un Liam Gallagher de noantri.
Inizia con Meglio Così, intonata da tutte migliaia di voci che lo circondano. È emozionato, e solo dopo diversi brani comincia a parlare con il pubblico. Comprensibile, considerando che l’impresa che sta compiendo è l’arrivo sulla cima dell’Everest proiettata nel contesto delle ambizioni di un musicista.
Poche parole da parte sua e una scaletta che parte subito serrata, andando avanti a spada tratta attraversando tutti i dischi, dalle origini fino ad arrivare all’ultima fatica Dentro.
La band alle sue spalle (formata da Claudio Bruno e Giovanni Grieco alla chitarra, Claudio Laguardia alla batteria, Gabriele Roia al basso ed Ettore Mirabilia alle tastiere) funziona, riuscendo a dare la giusta carica allo show che proprio grazie al supporto di ottimi musicisti trova una dimensione d’impatto: Gazzelle è il collante e l’idolo delle masse, ma è il complesso ad arrivare a riempire ogni centimetro dello Stadio.
Nella maggior parte dei casi, vengono mantenuti gli arrangiamenti originali dei pezzi, ma anche grazie alla collaborazione di coriste e sezione d’archi i risultati più interessanti sono quelli raggiunti con i brani riarrangiati proposti nella prima metà della scaletta, come nel caso di Meltingpot, o della versione dalle sfumature rock di Zucchero Filato.
Uno show del genere richiede collaborazione anche da parte degli amici di una vita. Salgono sul palco per un pezzo ciascuno Marco Mengoni (Il meno possibile), Mara Sattei (Tuttecose), Mobrici (Sette) e Fulminacci (Milioni) creando un’esplosione nella scaletta (forse poco calibrata considerando la potenza di questo singolo blocco rispetto agli altri).
Sotto sotto sotto sta bene anche Flavio, e ce lo fa vedere tra i sorrisi che cerca di nascondere mentre canta, o quando a sorpresa abbraccia Ligabue che l’ha raggiunto, come special guest segretissima, durante una cover della sua L’Amore Conta.
Mentre l’attenzione del pubblico non accenna a diminuire e qualche coro che intona ancora Flavio Dai dagli spalti continua imperterrito, inizia il momento acustico, dove Gazzelle imbraccia la chitarra, da solo sul palco, proponendo una versione essenziale di alcuni brani come Scintille, che ben si prestano alla scelta. È difficile mettersi a nudo in questo modo davanti ad un pubblico non indifferente di quarantamila persone: si crea un interscambio tra la commozione di Flavio e la voce del pubblico, che ne assimila l’intensità.
È difficile descrivere quello che si scatena quando un artista canta alcune delle sue hit più note in un contesto del genere: un coro (letteralmente, un enorme coro da stadio) canta da tutte le direzioni senza dimenticare neanche una parola. Può essere una canzone qualsiasi di Superbattito, di Punk o degli ultimi lavori, ma comunque scatena una reazione, un orgoglioso affetto. La forza di Gazzelle e la conferma dell’aver lavorato bene prima di trovarsi lì sopra, arriva con quelli che a questo punto possiamo già definire dei classici, come quella Non sei tu con cui sceglie di chiudere il concerto.
I suoi non sono più solo i brani che nel 2018 ascoltavamo nelle cuffiette con il volume al massimo mentre cercavamo di riprenderci da una delusione amorosa, perché ormai il rapporto con i suoi ascoltatori è costituito anche da una fiducia che sembra seguirlo, a prescindere, in tutte le scelte artistiche.
Sembra essere questo uno degli aspetti che accomuna tutto il pubblico, andando oltre le differenze di età - che in alcuni casi sono evidenti, passando da ragazzi del liceo ad over sessantenni che nonostante tutto si abbracciano cantando. Quello che ha reso Gazzelle l’artista che oggi vediamo qui è stata la sua fama di patrono dei cuori infranti e delle storie complicate, che scorrono via inafferrabili quando cerchiamo di ricordarle ma che nelle sue parole tornano ad essere vivide come la prima volta.
A creare una discrepanza tra gli ultimi brani usciti e le canzoni iconiche è questa differenza di status, che forse non sarà più del tutto raggiungibile per rappresentare una generazione intera se non nella dimensione dei live. È lì che attraverso l’emotività di chi ancora non ha ben realizzato di essere arrivato a quel punto, di chi ancora scrive perché è il solo modo che ha per trovare il suo posto nell’universo (musicale e non) che emerge una nuova maturità. Oggi rimangono lacrime e cicatrici, e poi? Probabilmente il pubblico più fedele e innamorato che si possa chiedere.
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L'articolo Cosa ci dice di noi il live di Gazzelle all'Olimpico di LucreziaLauteri è apparso su Rockit.it il 2023-06-11 11:15:00
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