La critica musicale non è stata uccisa, si è suicidata

Tutti cercano chi ha sottratto al giornalismo il suo ruolo di custode del gusto e tutore dei cambiamenti in ambito musicale. Non è stato né il populismo né il web, ma la scelta tafazziana di mettere la simpatia al primo posto per non far sentire nessun ascoltatore inadeguato

"Masinic Youth" – Simone Stefanini, pixel su tela
"Masinic Youth" – Simone Stefanini, pixel su tela

Una delle caratteristiche più interessanti e peculiari della musica è quella di descriverci e allo stesso tempo differenziarci dagli “altri”. Da un lato ci siamo noi, appunto, dall'altro tutto il resto. Nel periodo di formazione musicale che - di solito - collima con l'adolescenza spinta, i fantomatici “altri” sono i genitori o, più in generale, gli adulti che, volenti o nolenti, permettono a una generazione di distinguersi dalle precedenti attraverso qualcosa che gli altri schifano a nastro (che siano i Negazione o Achille Lauro, alla fin fine, non fa molta differenza).

Partendo da un'etica “dal basso” contrapposta a quella genericamente riconosciuta come appropriata dalla società di cui tutti i genitori/adulti finiscono per far parte (Claudio Villa, i Pooh o Ligabue anche qui non fa molta differenza). Innescando quel celeberrimo “conflitto generazionale” di cui si parla ormai da una vita.

Crescendo, la questione diventa un po' più complessa. Sottile. Così persone della stessa generazione possono discutere anche selvaggiamente sui gusti musicali. Il che risulta semplice, da comprendere e da ipotizzare, se i contendenti siamo io e Matteo Salvini (che ovviamente per me capisce nulla di musica). Appare verosimile nelle prese in giro che da tempo immemore si scambiano vicendevolmente i rasati amanti del Punk e i capelloni dediti al Metal – o discotecari e rockettari, fate voi.

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Riesce invece più ostico quando in singolar tenzone si sfidano non solo persone della stessa leva, ma anche con il medesimo bagaglio culturale e imprinting storico. Ovvio si cresce e, per fortuna, se si continua a curare un animo musicale, si espande, diversifica, magari riesce pure ad aggiornarlo (non come certi della mia generazione che “eh, però vuoi mettere i...” a gamba tesa su tutto), si scoprono nuove sonorità e ci si ricrede su vecchie scartate, forti di una maturità e di una consapevolezza che negli anni giovanili magari non si possedeva (a me è successo per la bossanova, per dire). Ma non mi riferisco a loro: il loro campo di azione è immune all'era delle post-verità.

La più grande e forse più celebre di tutte è una balla così colossale da resistere a ogni evidenza. Che La Fabbrica di Plastica di Gianluca Grignani o Zucchero Filato Nero di Mauro Repetto, o In Due di Nek abbiano stessa dignità artistica della produzione dei Marlene Kuntz o, perché no, dei Sonic Youth, lo si potrebbe raccontare solo a un marziano di passaggio. Eppure, da anni oramai firme tra le più note e rispettate spingono, quasi spasmodicamente, a mesi alterni, questo incredibile assioma.

E quindi giù di anniversari, amarcord e memoir. Paragoni improbabili, ricordi ameni, recensioni inverosimili e quant'altro possa servire per fare empatizzare il lettore col nulla cosmico che gli si sta propinando. Ora: ci si indigna se un ventottenne con i capelli fluo chiama il disco Rockstar (che, nel 2020, non vuol dire nulla). Ma tutto tace se un quarantacinquenne maturo e posato che usa “Fugazi” come intercalare definisce Grignani “l'unica rockstar italiana con un senso dal 1994” o argomenta i brani di Filippo Neviani in termini di “straight in the face” neanche fosse GG Allin? Parliamone.

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In quelle parole e altre ci sono tante cose, come i più attenti hanno rivelato, la più minacciosa delle quali però è rimasta impercepita, per l'aura d'ironia giovanilistica da cui il fenomeno è il più delle volte circondato. Ovvero che rappresentino il segnale di un bradisisma epocale di cui il populismo è l'attore e la voce narrante, causa ed effetto allo stesso tempo e ogni contesto. A noi per fortuna non spetta, come le oche del Campidoglio, di svegliare i dormienti. Perciò ci limiteremo ad analizzarne i tratti salienti e ipotizzare i motivi editoriali che riguardano la comunicazione, per il poco che hanno fatto, e non per il troppo che sono accusati di fare.

Perché il fine ultimo non è approfondire o, dio volesse, educare all'ascolto; semmai compiacere la fetta di pubblico meno acculturata, e dargli la pia illusione di non essere poi troppo diversa da chi sa. Come quando, per aver una chance con una tipa, non solo sorvolate il fatto che ascolti ciarpame, ma attribuite a quel ciarpame nobili retaggi storici così arcaici che in confronto a voi Tolkien era un iperrealista. Ecco, la tipa in questione è il pubblico.

La saggistica classica agli albori della modernità, quella per capirci di Legs McNeil e Richard Hell, dice: il populismo ha cancellato la critica musicale. Non scherziamo, rispondono i contemporanei come Wilson e Raynolds. Se c'è una cosa in cui la critica musicale è stata sempre esperta è nel farsi male da sola come Tafazzi. L'auto-estinzione è il suggello di una storia oramai decennale in questa direzione. Non è sparita dalle colonne perché c'è una vecchia scuola di scarpe lucidate a nuovo su ammiccamenti simpaticamente (mai come negli ultimi anni il giornalismo musicale ha come fine il falso merito della simpatia) dozzinali di chi, per usare le parole di un vecchio rompipalle come Del Papa, “dà l'idea di avere un dito nel culo e di trovarlo anche piacevole”.

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Niente vanterie: non siamo peggio di chi ci ha preceduto, forse solo più squallidi. Sono stati i tempi, piuttosto, a esser cambiati. I populismi anni Novanta, per dire, avevano vita facile. Di là un corollario di drammi esistenziali-giovanili servito in camicie di flanella e Doc Martens, di qua l'iperspazio del divertimento di boy/girl band di ogni forma e fattezza, mostravano il volto gentile e tollerante verso gli entusiasmi adolescenziali; la parte soft di una programmazione double-face che sul retro esibiva ancora tratti duri, “militanti”, della lotta culturale predicata nei decenni prima - e negli anni Settanta soprattutto. Ora le cose sono cambiate alquanto. Altri attori sono entrati in scena, o per meglio dire hanno ampliato a dismisura il loro copione. Uno, in particolare: quel ceto medio di cui Lester Bangs aveva preconizzato, una vita fa, la centralità per il declino della critica nella società moderna.

“C'è un passaggio assai pericoloso nella vita di ogni imbrattacarte come me. Può sempre accadere che un gusto eccessivo per il piacere di essere letti ti porti a consegnarti ai primi stupidi che ti si presentino davanti. Se il gusto di essere letti si sviluppa più rapidamente dell'abitudine alla libertà di scrivere il vero, o il verosimile, non sarà neanche necessario strapparti il consenso con doni e lusinghe: sarai tu stesso a privartene volentieri per concederti ai falsi lettori che ti diranno che cosa vogliono leggere e come scriverlo. Ma un pubblico che chieda solo di essere intrattenuto e non redento ti rende schiavo in fondo al cuore.” (da The Estate of Lester Bangs, 1987-2013)

Più della schizofrenia sociale, infatti, colpisce quella dei commentatori. Non parlo di Superstar del giornalino di istituto. I correttori di bozze della realtà che vedono accenni di Syd Barrett in Gianluca Grignani e di Bob Mould in Marco Masini (come realmente letto in giro), i maestrini di calligrafia della musica, dell'arte, delle mode e dei costumi che con i loro esercizi di stile sarebbero in grado di far sentire nel posto giusto un fan di Biagio Antonacci al Venezia HC, scrivono per alcune riviste tra le più blasonate in giro.

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Tanto che qualcuno ha iniziato a ipotizzare pure un esperimento sociale alla Modà, della serie: vediamo se riesco sul serio a rendere credibili queste fesserie in giro? Ma al di là delle teorie complottiste, scriveva anni fa Sergio Messina:

“Regola numero 948: per sapere cosa mi piace ho bisogno di quello che non mi piace. Non si scappa. E non solo perché così saprò che non mi piace (e quindi cosa invece sì), ma perché in certi casi rafforzerà il mio piacere. Nella musica capita spesso: non solo ascoltando Justin Bieber capisco come mai mi piace King Krule, ma il piacere si rafforza”.

Ma se si giustifica tutto, come si fa? Questo naturalmente sottrae peso ai critici, agli esperti e anche a quelli che si definiscono - con una mano davanti e una dietro – “solo-giornalisti –musicali”, le cui pregevoli opinioni finiscono per triturarsi nel marasma di boiate scritte da altri – anche per via del fatto che spesso sono più esposte, o sono scritte con un linguaggio meno impossibile. Così, senza che ce ne accorgessimo, abbiamo imparato a sostituire l'obiettività del critico con la simpatia dell'opinionista che ha raggiunto uno status che glielo permette (provateci voi ad entrare al Freakout e dire che “Mauro Repetto è incompreso e geniale come Morrissey”) e magari ti fa sentire, alla bisogna, meno scemo, meno ignorante, meno borghese... È chiaro che l'autorevolezza critica esiste ancora, ci mancherebbe. Nel 2020 però si deve cercare col lanternino, giorno per giorno, zigzagando tra quelle che sono alcune delle rivalutazioni storiche più assurde e impensabili che ci si potesse immaginare.

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L'articolo La critica musicale non è stata uccisa, si è suicidata di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2020-07-22 10:39:00

Tag: opinione

COMMENTI (3)

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  • guga_1976 3 anni fa Rispondi

    e menomale che si sono suicidati, pseudo-giornalisti autoreferenziali che si auto-elevano a luminari della musica, capendoci invece ben poco, e si arrogano il diritto di dire cosa è sì e cosa e no. Purtroppo siamo in Italia, dove chi sa fare, fa, e chi non sa fare, scrive aria fritta

  • piantagigante 4 anni fa Rispondi

    Certo è che paragonare Gianluca Grignani (cantautore e musicista eccelso) e i suoi album a certi soggetti italici, con tutto il rispetto per Nek (Filippo Neviani) e Marco Masini (anche loro, a loro modo, ottimi musicisti), appare più che forzato, se non totalmente errato. Poi cosa viene citato? ''La Fabbrica di Plastica'', un disco perla...un vero gioiello, album di indubbia qualità; fatevene una ragione. Per parlare di Rock o Pop-Rock di qualità, in Italia, non bisogna necessariamente citare Marlene Kuntz, Afterhours e similari. Ciò non accadrebbe all'estero, dove Rock e Mainstream riescono a sposarsi senza creare diffidenze da secoli: (Chuck Berry, I Beatles, I Rolling Stones, Bruce Springsteen, persino i Metallica, a loro modo sono stati e sono più in Mainsream di Britney Spears, eppure...) In Italia oggi, per come siamo messi, vogliono far passare per ''Rock'' Emma Marrone (ottima cantate pop, ok, però...) e compari, e voi venite a parlarmi male di cantautori (musicisti veri) che andrebbero realmente rispettati e/o tutelati? Ivan Graziani oggi viene considerato un mito assoluto, andate a rileggervi i giudizi (non tutti negativi ovviamente) della critica del suo tempo.

  • patrizioschina 4 anni fa Rispondi

    Complimenti articolo interessante, una curiositá chi è il 45enne che usa fugazi come intercalare ed elogia grignani?