Enrico Fontanelli è morto 10 anni fa. Fa un po' strano dirlo, in effetti. Perché nei 36 anni che ha vissuto ha fatto davvero tante cose e dato vita a una band e a tre dischi che, negli anni della formazione di molti di noi, hanno travolto il nostro immaginario. Erano i primi anni del nuovo millennio, una fase che definire di stanca per la musica alternativa italiana sarebbe persino riduttivo, e nella loro Reggio Emilia Enrico con Max Collini e Daniele Carretti fondavano gli Offlaga Disco Pax. Dopo aver vinto il Rock Contest, nel 2005 arrivò l'esordio con Socialismo Tascabile - Prove tecniche di trasmissione. Nel 2008 è uscito poi Bachelite e nel 2012 Gioco di società.
Di quella formazione Fontanelli – polistrumentista e produttore – era l'anima musicale e pure quella "estetica". Tutte le copertine, i libretti, le infinite grafiche delle serate erano a opera sua, e hanno contributo a creare la mitologia (no, non è una parola a sproposito) del gruppo. Nella gallery qua sotto ve ne trovate qualcuna, ricordandovi che sono state raccolte in un libro e in una bellissima mostra.
Ve le doniamo, in questo giorno un po così, assieme alle parole di Max Collini.
Come hai conosciuto Enrico Fontanelli?
Ho conosciuto Enrico Fontanelli prima attraverso la sua musica e poi di persona, grazie a un demo, bellissimo, di un gruppo che nel frattempo si era già sciolto. Si chiamavano Kathleen's e lui ne era anche il cantante. In quel gruppo c'era anche la violoncellista Deborah Walker, con cui nel corso del tempo abbiamo condiviso molte cose. Il demo dei Kathleeen's me lo passò Daniele Carretti (terzo membro degli Offlaga Disco Pax, ndr), guarda il caso, e credo fosse l'anno 2000 o giù di lì.
La prima volta che lo hai visto di persona a quando risale?
Credo sia stato per un concerto dei Magpie, il gruppo dove invece suonava Daniele. Ne ebbi un impatto molto forte, sia di lui sia della sua musica. Pensai che era fighissimo, sia per il suo modo di porsi che di suonare. Sono stato prima un suo ammiratore che un collega nel gruppo che avremmo poi messo su insieme, due o tre anni dopo. Ricordo che all'epoca andammo a vedere diversi concerti in giro per l'Italia, in particolare il primo concerto dei Sigur Ros a Milano. Ci separavano dieci anni, ai suoi occhi dovevo essere un rimastone della new wave, ma se non gli fossi andato a genio non mi avrebbe mai permesso di collaborare artisticamente con lui. La chiamo, citando Enrico Brizzi, "l'inattesa piega degli eventi".
È stato lui, assieme a Daniele, a coinvolgerti in quelli che sarebbero poi diventati gli ODP. Qual era stata la sua "visione" per quel folle progetto?
In quel momento credo gli interessasse un approccio situazionista, culturalmente provocatorio. Mettere un geometra di 36 anni su un palco che declama cose strambamente identitarie non poteva essere qualcosa che potesse razionalmente prevedere una qualche conseguenza. Credo immaginasse una roba mordi e fuggi, ma non aveva fatto bene i conti con me e Daniele e la cosa gli è sfuggita di mano nelle sue conseguenze. Senza i miei racconti, che aveva letto e apprezzato in precedenza non gli sarebbe mai venuto in mente di farmi quella proposta. Siamo nati, oggettivamente, per una serie di coincidenze astrali, ma il percorso a un certo punto è diventato più strutturato, stabile, governato. Per quanto potesse essere possibile, ovviamente.
Cosa vi legava e in cosa eravate diversi?
Enrico era caratterialmente il mio contrario: introverso, riflessivo, selettivo, a volte irraggiungibile. Avrei voluto essere il suo migliore amico, ma non ci sono riuscito: eravamo davvero troppo diversi per esserlo. Alla fine sono stato uno degli strumenti che gli ha permesso di trovare la sua strada come artista. E lui il mio per scoprire che avevo qualcosa che non sapevo di avere. Enrico è stata la mia sliding door ed è l'unica persona al mondo che mi va di andare a trovare in quei luoghi, anche se sta riposando lontano e bisogna fare trenta chilometri di colline per raggiungerlo. Tipico suo, devo dire.
Qual era il suo rapporto con la musica?
Anzitutto era un uomo profondamente curioso. Leggeva, cercava cose nuove, era sempre aggiornato. I dischi che ascoltava li vivisezionava, ne comprendeva dettagli che io non mi sarei mai sognato neppure di ipotizzare. Dava l'idea di capire qualcosa che ai più sfuggiva e aveva sempre una visione inaspettata delle cose, come se le osservasse sempre da un punto diverso da quello prevedibile. Artisticamente questo approccio ha sempre alzato l'asticella del gruppo, non proponeva mai una lettura superficiale e per me, per le cose che scrivevo, il primo e l'unico giudizio importante era il suo. Non dava molte soddisfazioni in questo senso, devo dire. Ma se accettava di lavorare su una mia proposta era certamente un modo di dire che il testo gli era piaciuto, non era incline ai compromessi, fidatevi.
Cosa diceva del tuo lavoro?
Ho un ricordo bellissimo di un episodio relativo alla lavorazione di Gioco di Società, il nostro terzo album uscito nel 2012. Avevo mandato via mail diversi testi nel corso del tempo a Enrico e Daniele. Di norma Enrico non rispondeva MAI alle mie mail, ai miei messaggi, alle mie telefonate. A un certo punto mi rispose davvero, era la mail con la prima bozza del testo di Parlo da solo, che diventò poi il primo singolo del disco. Rimasi spiazzato, avevo paura ad aprirla. Pensai che doveva veramente essere brutto quel testo per far sì che mi rispondesse. Aprii la mail. Conteneva una sola parola. La parola era "Bello". Fine della mail. Un ragazzo con il dono della sintesi, bisogna dire. Ma io per tutto il giorno camminai a mezzo metro da terra. Quello fu il solo commento che abbia mai fatto agli otto testi del disco. A pensare come sia andata solo due anni e mezzo dopo mi viene un magone insostenibile.
Le sue grafiche sono state parte del vostro successo. Cosa hai capito vedendolo all'opera?
Enrico e io siamo sempre stati d'accordo su una cosa: evitare in ogni modo qualunque retorica, per quanto possibile. Nelle sue grafiche, che abbiamo raccolto in un libro d'arte davvero meraviglioso nel 2018 e di cui sono rimaste ormai poche copie delle mille che stampammo allora, non troverete mai una falce e martello, ad esempio. Non per snobismo, semplicemente perché non ci sembrava quello il nostro compito artistico. Non siamo mai stati una combat band come lo sono stati i Modena City Ramblers o gli Assalti Frontali o i Gang, per dire. Eravamo altro, più minimalisti e "domestici", come piaceva dire a lui. Nelle grafiche non era nemmeno didascalico, non lo è mai stato. Semmai quello didascalico ero io, credo. A rivederle tutte assieme, quando sfoglio il catalogo di cui dicevo poco sopra, mi accorgo che ho lavorato con un artista pazzesco e che non era solo con un musicista, ma anche artista visivo, fotografo, grafico, videomaker (il video diRespinti all'uscioè interamente opera sua, ndr), produttore artistico e mille altre cose ancora. Avevamo tutte figure in una sola persona ed erano tutte al servizio del gruppo. Fu anche il produttore artistico, assieme a Giacomo Fiorenza, dell'album Glamour de I cani (il loro secondo disco) e credo che in un brano come Non c'è niente di twee qualcosa di lui si senta.
A cosa pensi oggi?
Che mi girano i coglioni a dismisura a pensare a quello che avrebbe potuto dare ancora al mondo e a se stesso se fosse rimasto tra noi. Tra noi però per fortuna è restata Leila Fontanelli, sua figlia, nata poco prima che ci lasciasse e che ora ha dieci anni. Gli somiglia tantissimo.
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L'articolo Enrico Fontanelli sapeva cambiarti la vita di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-04-04 15:12:00
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