Con la sola eccezione del Giardino delle Cascate al laghetto dell'Eur, Enzimi quest'anno si è snodata lungo zone centrali della città. Tutte adiacenti, fra l'altro, e a beneficio ulteriore degli astanti, in prossimità della metro: Piazza Vittorio, Piazza Cinquecento, Acquario Romano, Teatro Ambra Jovinelli. Quartiere Esquilino, insomma. E la Stazione Termini? Adesso ci arrivo. Scale mobili e via all'aria aperta, nemmeno l'affanno di cercare: il palco é montato appena fuori sul piazzale dei bus, in un punto un po' defilato di destra che guarda a Piazza della Repubblica. La serata é mite, in ogni senso: niente caldo umido e nessun bisogno della felpa. Tre file di banchine, chissà da quanto, sono gremite di persone. Altre di passaggio, a fermarsi incuriosite. Altre ancora solitarie o realmente sole, delle quali provo a sondare umori e in uno sguardo condividerne la circostanza. Stranieri in vacanza e gruppi di comunitari. Pubblico non ancora folla eterogeneo, multietnico. Come accade talvolta ai concerti, infatti, ci sono inizialmente sette gatti; si diffondono le prime note e ti ritrovi a guardare il vicino negli occhi. Apre Morgan, accende un cero ricordandoci che la fiaccolata per le due ragazze rapite in Iraq culminerà qui. Sentiti applausi. Attacca al piano con una versione intensa di "Cieli neri", sembra dirci: "Guardate che i Bluvertigo sono vivi e vegeti". O forse un commiato estremo. Entra in scena il suo gruppo ed eseguono "Altrove", traccia portante dell'album solista. Passa al synth, dà il la ad "I'm the baby", l'atmosfera si scalda. Marco Castoldi è un secco naturale che fuma più di quanto mangia, se la tira perché sa di essere bravo ma é anche simpatico, fa l'intellettuale per evitare il banale ma in fondo è il primo a riderci su. Stasera, intanto, è funambolico, scafatissimo: mano sul pacco, accenni di break-dance, giacca brandita a mo' di lazzo da cow-boy, spaccata aerea alla Pete Townsend, passetto laterale di chuckberriana memoria su cui poi Angus Young ha costruito mezza carriera. Eccolo al basso, seguono altri tre pezzi verosimilmente dalla recente produzione, con l'ambiente oscillante fra entusiasmo e tepore. L'ultimo Morgan, invece, resta sospeso tra melodia e sonorità oblique, un po' stridenti.
Chissà che musica avrebbe fatto se non fosse mai esistito David Bowie. Il congedo, a sorpresa, è affidato a una cover di Modugno potentemente riarrangiata e a un: "Thank you very much indeed, ciao Italia" che ormai non suona più tanto originale. Pausa. Al mio fianco due ragazzi africani, di fronte una coppia orientale, alla mia sinistra un simpaticone di Bari che mi fa due palle così su Cassano. (Colpa mia... gli ho teso l'amo per rompere il ghiaccio). Fanno ingresso i romani Tetes de Bois. Il privilegio è conoscerli direttamente dal vivo, i valori aggiunti tromba e tastiere. Dopo qualche brano comincio a inquadrarli: un misto di jazz e folk percorsi da repentine marcette di matrice balcanica. Il riferimento più immediato però è chiaro, e non nego di averlo appreso in anticipo: un amore assoluto per il glorioso cantautorato proletario d'oltralpe, dunque Brel, Brassens, Ferré.
Omaggiati non di meno nei testi ora ironici ora impegnati, spesso vere frecciate al perbenismo borghese. Alle spalle del gruppo scorrono immagini mute del leader, egli stesso introduce ogni pezzo con aneddoti che fanno riflettere, il pubblico non è che si strappi i capelli ma rimane rispettosamente partecipe. "Le rane", ad esempio, è bellissima e suscita emozione. Teste di Legno. Faccio tre ipotesi: un verso di una canzone francese, una passione per il teatro delle marionette, un'espressione gergale per "capa dura". Quest'ultima sarebbe coerente con lo spirito della band, che ha scelto la sponda antagonista schierandosi con i dropout, i perdenti, tutti coloro che pur avendo vissuto sempre ai margini alla fine hanno prodotto qualcosa di buono. Vengono infatti citati Vendrame, genio incompreso del pallone poi divenuto scrittore, e Dino Campana, poeta tormentato (e non maledetto, come definito da qualcuno), che si spense in manicomio.
Sono le 23:20, tra dieci minuti chiude la metro. Giusto il tempo di ascoltare "Io sono allegro perché sono cretino", genuina goliardia illuminata che almeno stasera mi oscura il domani, il pensiero di un odierno inquietante. Perché la serata è stata gradevole ma c'era qualcosa nell'aria … si chiamava apprensione.
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L'articolo Enzimi - Roma di Blonde è apparso su Rockit.it il 2004-09-10 00:00:00
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