Fondatore della 800A Records, Fabio Rizzo è una figura importante per la musica palermitana: come produttore ma soprattuto come talent scout. Ha scoperto Il Pan del Diavolo e, più recentemente, due nomi formidabili come i Da Black Jezus e Alessio Bondì. Ha lavorato anche sul nuovo album di Dimartino, “Un paese ci vuole”, e ce lo racconta.
Gli ultimi due dischi che hai prodotto, l'esordio di Alessio Bondì, “Sfardo”, e il nuovo album di Dimartino, “Un paese ci vuole”, sono molto diversi tra loro. Sbaglio a dire che quest'ultimo è decisamente più complicato del primo?
In realtà non te lo saprei dire con certezza. Sei mesi fa Alessio mi ha portato solo dei pezzi chitarra voce e, ovviamente, il fatto che fossero in dialetto palermitano non ha semplificato le cose. Devo dire che la pressione su quel lavoro è stata non indifferente: dovevamo evitare di fare un disco che venisse tacciato di regionalismo o di world music. È stato un lavoro molto lungo: quello di Dimartino in due mesi, tra registrazioni e mix, l'abbiamo portato a casa; per quello di Alessio ci abbiamo impiegato almeno il doppio.
Da quanto tempo fai questo lavoro?
Ho iniziato una decina di anni fa, però lavoravo essenzialmente ai dischi dei miei gruppi: con Fabrizio Cammarata nei Second Grace o negli Waines. Direi che il mio battesimo coincide con l'ep d'esordio del Pan Del Diavolo nel 2008; penso sia stata la mia prima volta da produttore vero, o quanto meno da produttore esterno ad un gruppo.
Hai un metodo ricorrente?
Dipende, in primis dal tipo di songwriting e dal metodo compositivo. Come ti dicevo, Alessio è arrivato con i pezzi chitarra-voce, Antonio (Dimartino, NdR) aveva già fatto un bel po' di pre-produzione a casa con il computer. Oppure, al contrario, con Fabrizio Cammarata le cose sono sempre molto aperte, si va di flusso creativo anche in studio; cosa che, in realtà, accade con chiunque, va detto, ma sempre in forme molto diverse tra loro. L'unico aspetto che caratterizza davvero il mio metodo è entrare da musicista all'interno di questi progetti: non sono solo un tecnico, divento parte della band o del progetto. Il mio è un lavoro prettamente musicale.
Solitamente in un produttore si cerca l'opposto, ovvero un punto di vista totalmente esterno, no?
Sì, è vero. Diciamo che io sono uno in più, e sicuramente sono più fresco sui pezzi perchè magari il gruppo li sta già suonando da mesi mentre per me è la prima volta. Nel disco di Antonio ho suonato principalmente le chitarre e poi ho studiato gli arrangiamenti e le linee armoniche insieme ai ragazzi.
Come hai strutturato il lavoro?
Nonostante la pre-produzione di Antonio, le canzoni sono praticamente nate lì in campagna, in questa casa bellissima a Misilmeri. I primi giorni c'era anche Dario Brunori ed i pezzi hanno iniziato a cambiare quasi subito. Quattro o cinque sono stati velocizzati.
Tipo?
Da “Cielo a cielo”, ad esempio, adesso è un pezzo a 100 BPM con la cassa in quattro quarti, mentre nelle versione iniziale era molto più sognante, etereo e dilatato. Dario aveva detto: “proviamo a dargli qualche punto di velocità in più” e nel frattempo ho iniziato a trovare tutta una serie di soluzioni ritmiche o di suoni diversi.
Quanto ci hai messo a registrarlo?
Le riprese sono durate in tutto quindici giorni. Per 12 canzoni, così stratificate, è poco se ci pensi.
È pochissimo. Quante ore lavoravate al giorno?
Se avessimo avuto il doppio del tempo sarebbe stato meglio, chiaro. Abbiamo lavorato a ritmi veramente elevati ma, sinceramente, non posso lamentarmi. Tolto lo stretto necessario per dormire, quelle 7-8 ore, il resto lo passavamo a registrare, ma in un contesto molto bello: mentre uno suonava gli archi, gli altri preparavano lo spezzatino (ride, NdA). Quelle due settimane non le ricordo come un momento stressante.
(Antonio Dimartino durante le registrazioni del disco, clicca sulla foto per vedere le altre)
Il disco è stato co-prodotto da Antonio Cupertino.
Sì, infatti, stavo per introdurlo io. Il suo lavoro è stato fondamentale perché, una volta fatte le registrazioni, gli abbiamo messo in mano tutto il materiale e lui ha aggiunto un altro livello di produzione importantissimo. Non è stato solo un lavoro di mix ma ha aggiunto proprio un livello superiore: ad esempio, in “La vita nuova” ci sono dei suoni che sembrano dei synth ma in realtà sono dei riverberi messi sul dobro acustico, e quella è stata una sua invenzione.
Vi eravate dati dei dischi di riferimento?
Antonio stava ascoltando molto Patrick Watson, oppure un altro riferimento potevano essere i Tame Impala. Ma erano giusto degli spunti da cui, magari, poi, nasceva tutt'altro. Ti posso dire i suoni che ci interessavano: batterie molto calde, anche grosse, con determinate ritmiche di matrice africana e synth dalla grana analogica importante, alla James Blake o alla Nicolas Jaar. Diciamo che la mappa di riferimento era quella lì.
“Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile”, l'album precedente, era decisamente scarno, magari mi sbaglio ma l'impressione è che tutto si reggesse su tre-quattro strumenti, non molti di più; in confronto questo sembra un disco con l'orchestra.
È vero, è Antonio che l'ha voluto così. E ti tieni presente che sono tutti strumenti veri, i violini, le marimbe, non non ci sono strumenti riprodotti digitalmente. Abbiamo dedicato intere giornate agli archi perché volevamo dare questo livello orchestrale molto vero, molto organico.
Tu di “Sarebbe bello...” che parere avevi?
(Lunga pausa, NdA) Penso che fotografasse quel momento lì, e che Antonio ed i ragazzi avessero meno esperienza nel sapere cosa aspettarsi da un disco. Per “Un paese ci vuole”, fin da quando abbiamo iniziato a parlarne lo scorso autunno, Antonio aveva le idee molto più chiare.
Te lo chiedo perché anni fa avevo fatto ascoltare quel disco ad un produttore molto importante, Carlo U. Rossi – che è morto tragicamente in un incidente pochi mesi fa. Le canzoni gli erano piaciute ma avevano quello che per lui era il più grande difetto di tutti i cantautori odierni: non riuscire ancora ad abbandonare gli anni '70, Dalla, De Gregori e De André, ecc. Tu che ne pensi?
Non so se questo nuovo disco risolverà il problema (ride, NdA), ma sicuramente c'era il tentativo di andare oltre ad una figura ritmica che potesse suggerire di primo acchito una scrittura tipicamente italiana - come è quella di Antonio, ovvio - andando incontro ad influenze internazionali. Non abbiamo avuto nemmeno per un attimo la via di fuga in De Gregori o Dalla.
Qual è stata la parte più difficile di questo disco?
(Lunga pausa, NdA) Diciamo confrontarci con il fatto che la scrittura italiana è fatta di determinate alternanze, di enfasi, di aperture, cose che certa musica internazionale, anche pop, non ha.
Intendi dire, che ne so, che una canzone degli Editors procede dritta dall'inizio alla fine mentre De Gregori ha molte più aperture, slanci dinamici, cose di questo tipo?
Intendo dire che nella produzione italiana c'è una grammatica tipica che ti porta ad esempio ad "aprire" parecchio i ritornelli con archi o altri espedienti simili, creando degli apici emotivi che di fatto non possono mancare mai, soprattutto se il prodotto ha ambizioni radiofoniche. Non che nella produzione internazionale questo non accada, però se prendi ad esempio qualche pezzo di Lorde o di Christine and the Queens, ti accorgi che tra la strofa e il ritornello entra magari solo un synth in più e qualche coro, eppure il "salto" emotivo c'è tutto. In altri casi si ragiona addirittura di svuotamento, affidando tutto al potere magnetico delle voci. C'è un minimalismo dominante nella produzione internazionale contemporanea che mi interessa molto, penso per esempio anche a roba come quella di Pharrell Williams o Mark Ronson, e mi aspetto che prima o poi influenzi la produzione italiana, visto che ormai siamo espostissimi ad ascolti del genere anche nelle radio mainstream nazionali.
Dai molta importanza al testo?
Nonostante le esperienze in inglese con gli Waines o Cammarata, alla fine è la canzone italiana che mi dà determinate scosse: mi ricordo alcuni momenti con il Pan del Diavolo dove avevo i brividi sulla schiena per il modo con cui quella determinata chitarra si abbinava a quelle parole precise. Lo stesso vale per Antonio: siamo andati a farlo in campagna, in un paese, e l'album parla di paesi. Prima di iniziare a lavorarci mi sono concentrato molto sui testi, con Bondì è stato lo stesso. Ultimamente sono decisamente sintonizzato, a livello emotivo, sui testi.
Non tutte le canzoni del disco mi piacciono, ma i testi li trovo veramente affascinanti: è una favolona dove i protagonisti partono, si perdono e poi ritornano a casa diversi. C'è un senso di stupore bello, che a mio avviso è restituito anche dalla musica. Sbaglio?
Non sbagli, c'è questo aspetto evocativo, nei cori ad esempio o in molti altri dettagli. Più in generale: il livello narrativo del disco è stato uno dei punti centrali del lavoro, perché volevamo far scontrare queste storie di paese con dei suoni internazionali. Si sarebbe potuto investire un po' di più su determinati input folk, con strumenti del posto da cui veniamo, che ne so, mettere i mandolini o della roba ancora più tipica. Non l'abbiamo fatto perché non volevamo caratterizzare la dimensione di paese con nessun particolare regionalismo, l'obiettivo era di essere in qualche modo metaforici. A mio avviso ci siamo riusciti.
Ti chiedo di un paio di canzoni: la mia preferita è “I Calendari”, quell'intreccio tra la voce di Dimartino e quella di Cristina Donà è veramente bello, quasi geniale.
Quel pezzo l'abbiamo prodotto in maniera super minimale, c'era solo il pianoforte poi abbiamo aggiunto la marimba. Antonio ha cantato in cucina, anche ad una certa distanza dal microfono per far sentire il riverbero della stanza. Non l'abbiamo fatta con tutti i crismi tecnici quella voce, proprio perché volevamo che fosse una cosa molto vera, molto concreta. Prima gliel'abbiamo fatta cantare tutta, poi a Milano l'abbiamo fatta cantare anche a Cristina e, in seguito, abbiamo creato il gioco di voci. E Cristina ha fatto un lavoro fantastico: in due ore ha registrato la sua parte e poi si è messa scrivere linee melodiche, una sull'altra, poi sono finite nel pezzo in maniera magistrale. È un brano a cui sono davvero legato.
Un'altra che mi piace molto è “L'isola che non c'è”, quel finale ti apre il cuore.
Fin da subito era una delle più popolari, con queste chitarre molto ritmiche, molto da provincia italiana. È calda, mi ricorda il legno, la luce di paese.
La cosa bella è che inizia così, molto folk, poi finisce quasi come un pezzo sanremese.
Esattamente, diventa una ballata apertissima, con questo ritornello che non finisce mai e si rinnova continuamente, entra anche quella tromba... Inoltre per quel pezzo abbiamo tentato un esperimento ritmico particolare: nella prima parte la batteria ha un incastro abbastanza stretto mentre nella seconda c'è un bel tempo largo, tipico delle ballate. Riuscire a creare una transizione tra i due momenti – è una cosa abbastanza insolita passare da una batteria ad un'altra in una canzone – è stato uno dei punti più difficili del disco.
Sei molto severo in studio?
Sì, lo sono con me stesso e questo poi, ovviamente, si ripercuote su chi lavora con me. Tendo a tenere ritmi alti di lavoro, soprattutto come numero di ore giornaliere. Ma, a livello di empatia, cerco comunque di curare il rapporto personale più possibile.
Qual è stata la cosa più difficile nel lavorare con Il Pan Del Diavolo?
In termini umani, la figata più grande è che i musicisti con i controcazzi hanno sempre personalità importanti: puntualmente ti incontri o ti scontri. In termini sonori il problema era cercare di riempire questo spazio lasciato dalla mancanza del basso o di una batteria.
Come li hai scoperti?
Mi pare fosse il 2006, loro erano giovanissimi: Sandro avrà avuto 21 anni e stavano iniziando a farsi notare suonando nei vari locali di Palermo. Ci eravamo poi incontrati a Italia Wave e mi ero proposto di dargli una mano per registrare qualcosa. Nel 2009 avevo qualche soldino da parte e gli ho prodotto il primo ep.
Il loro miglior pregio?
Il fatto di essersi ritagliati una frequenza tutta loro, secondo me è inimitabile: perché puoi fare il gruppo che suona con la grancassa, che canta in italiano, ecc., ma non ti avvicinerai mai alla furia di quel gruppo.
Disco dopo disco hanno avuto un'evoluzione molto interessante: sono passati dalla psichedelia o dal rock più scuro e continuavi sempre a riconoscerli. Merito tuo?
No, molto onestamente penso che il mio unico merito sia stato riuscire a fotografare la potenza iniziale dell'ep e sviluppare il discorso attorno al primo disco, “Sono all'Osso”. Quei due li reputo fondamentalmente miei, anche perché loro erano giovanissimi: Sandro aveva tante idee, un'emotività non indifferente, aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse. Già da “Piombo, polvere e carbone” c'è stato l'intervento strumentale di Antonio Gramentieri e di Diego Sapignoli, il mix di J. D Foster, il mio ruolo è stato di supporto ma ci sono poche idee che riconosco come mie.
Ti ho sempre considerato un ottimo talent scout, davvero; ci vedi lungo e gli artisti che scegli sono notevoli: qual è la qualità più importante che deve avere un gruppo per convincerti ad investire su di lui?
Ti ringrazio. Di solito è gente che punta tutto su quello che scrive. Se ci pensi, oggi, è un salto nel buio totale.
Spiegami meglio.
Intendo dire che per quella persona lo scrivere canzoni deve essere una cosa centrale nella sua vita: non è la moda del momento, l'hobby del sabato pomeriggio, oppure è di famiglia ricca ed ha il culo parato. Sono persone, anche molto giovani, che ad un certo punto dicono “io scrivo delle canzoni e voglio che diventi il mio lavoro”. Sarà che vivo in una città dove il lavoro non c'è e quindi, a mio avviso, questo aspetto diventa un ago bello grosso sulla bilancia. Quando intravedo una persona così mi colpisce molto, mi è successo l'anno scorso con i Black Jezus, adesso mi sta accadendo con gente di Palermo che ha 18, anche 16 anni.
Il miglior pregio dei Da Black Jezus?
La cosa più facile sarebbe dire questa voce straordinaria ma ancora prima c'è una formazione culturale ben precisa: hanno un'enorme passione per quel mondo lì, quel tipo di black music lo possiedono a piene mani. Ed è una cosa rara.
Di Fabrizio Cammarata?
Saper scrivere delle grandi canzoni: non è solo avere una grande capacità tecnica, in lui innegabile; è riuscire ad emozionarti in qualsiasi circostanza. Con chitarra-voce è unico.
Di Dimartino?
La scrittura: il livello di scrittura di Antonio, secondo me, sta crescendo a vista d'occhio.
Abbiamo finito, l'ultima domanda è: il dialetto potrà essere uno degli aspetti più interessanti su cui puntare in futuro per un cantautore?
Dipende assolutamente da chi lo usa. Io non mi sono mai approcciato veramente alla musica siciliana, o in dialetto siciliano, perché da decenni si accartocciava in soluzioni assolutamente fuori tempo massimo. Credo che l'unica proposta innovativa da quarant'anni a questa parte fosse stata quella di Rosa Balistreri negli anni '60-'70, lei sì che era devastante. Poi è arrivato tutto quel periodo riconducibile a certe cose etno world di Peter Gabriel dove le musiche regionali sono entrate in quel vortice terrificante di elettronica anni '90. Per me la musica regionale è sempre stata quella roba lì e mi sono ben guardato dal frequentarla. Poi ho conosciuto Alessio, un anno fa, mi ha fatto sentire le sue canzoni: veramente c'era Stevie Wonder accanto ai Mumford & Sons, o alla musica brasiliana, e usava il palermitano, la mia lingua, che è particolarissima, con tutti i suoi dittonghi, niente a che vedere con il catanese. Alessio lo faceva scorrere manco fosse inglese, mi sono davvero emozionato, sul serio, mi sono quasi commosso. Era una follia, dovevamo subito entrare in studio e registrarlo.
Cosa ti piace di più e cosa ti piace meno del tuo lavoro?
Mi piace il fatto che, per un periodo determinato, entro in società artistica con una persona: da quel momento in poi abbiamo lo stesso obiettivo. La cosa che mi piace meno è l'editing, appena posso lo subappalto (ride, NdA).
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L'articolo Il lavoro del produttore. L'intervista a Fabio Rizzo di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-04-14 18:56:00
COMMENTI (1)
Grande intervista.