(Gli One Dimensional Man al Fiat Parrock Festival)
Grandi concerti nel Veneto burrascoso di settembre. Nella palude del Nord-est emerge il palco del FiatParrock Festival, un piccolo festival di provincia con una grande sponsorizzazione. Fra pioggia e bolle di sapone, neve immaginaria e neve vera, ecco una cronaca sperimentale di una nativa scettica che ha dovuto ricredersi riguardo il rock e i One dimensional Man...
Giovedi 07 settembre 2006.
Arrivo a Vicenza. Non sono mai stata a Vicenza. E sì che vengo proprio da lì vicino. Il sole tramonta aranciato, ed il mio zaino è pieno pieno di ROCKIT'mag che odorano di ruggine. Il festival ha luogo a Montecchio Maggiore, Crossodromo ai Girasoli. Mi chiedo cos’è un Crossodromo e mi do una risposta non troppo convincente, al momento: dove sfrecciano le moto da cross… Prendo un autobus, sono in Veneto, sono dove sono, e dove sono adesso è una terra imprevedibile, una specie di tabula rasa dove prendono vita turbini che sono vuoti come un dialetto mai assimilato, o magici come le psicosi dell’arte. Nel bus, per esempio, davanti a me c’è un rapper rapato, ma di quelli gentili, che con un nero - forse un keniota - parla nella lingua del keniota. Ed io penso: “Hai capito il cosmopolitismo e il Veneto…”. Ma forse tutto ciò è solo frutto delle ascelle di un giordano turista che in treno sapevano di erba. Erba sudata, probabilmente giaceva nel taschino della camicia, o in quelle dei pantaloni, che tanto erano schiacciate al corpo massiccio da trasudare.
Il paesaggio è familiare, le colline sono solo più vicine e frastagliate. Mi vengono a prendere con la macchina dello sponsor, e lasciamo dietro noi campi e terra smossa. Scendo. Vedo Matteo, uno dei tre angoli del triangolo che sostiene il FiatParrock, insieme a una miriade di gente - non infinita al contrario di quanto si crede - altri ragazzi che pensano alle entrate e a tutto il resto. Il più vecchio penso sia il prete, questo coraggioso prode che ha dato il via al Parrock acconsentendo a far entrare un po’ di musica nelle vie di Vicenza. Avrà al massimo 32 anni. Tutti gli altri sono giovanissimi giovani e appassionati. Matteo è sconvolto, dopo i preparativi ed il resto.
Entro. Una lunga striscia di terra e prato, sulla sinistra il camioncino per la prova dell’alcool e delle sostanze varie, più avanti sulle transenne l’esposizione di Simone, un artista locale che col suo cappello bianco e il codino surclassa per chiccheria quasi tutti. C'è il sound-check dei Sant’Antonio Stuntmen. Dopo poco ci presentiamo, ed è come un po’ di neve che si scioglie nel cuore. Conoscere ciò che hai intellettualizzato all’oscuro di molto. Apriranno il concerto di stasera, ma non sono tesi. “Ogni volta ci si butta”. E nell’attesa mangio qualche briciola che mi aveva seguito da Milano. Il festival inizia e le gambe si alzano da sole, i Sant’Antonio si fanno sentire, ed io non li perdo. Il pubblico è scarso, è giovedì, siamo a Montecchio, e stasera suonano indie-rock.
La band ha bende rosa pelle che fasciano i visi, e sono cattivi in versione skeleton. Suonano venti minuti, cinque tracce. All’inizio un po’ insicuri, si sciolgono verso la fine con corsette folli e numeri vari. Dicono che la potenza della performance è proporzionale alla quantità di gente, anche se preferiscono spazi piccoli. A me sono piaciuti, il sound d’ottone tra wave e post-rock produce un peso netto convincente. Dicono che hanno qualche data in Francia e in Svizzera. Comunque questi venti mininuti passano in un soffio, ed io come un’ape e il suo miele, non mi sposto se non per mantenere l’equilibrio. Adesso è il turno dei Forty Moostachy, il miglior gruppo di Vicenza, a quanto pare. Si sente un “sei forti sti Moostachy” e in effetti il palco lo sanno tenere. Il cantante è un assatanato, burlone, picchiatello, la bassista concentra gli occhi di tutti gli “XY” e il batterista che dice di non essere al massimo delle prestazioni ha i capelli lunghi e pettinati. Cantano in inglese con un sound stoner potente ed efficace, dal vivo meglio che dal morto. E sarà fantastico sentirli parlare in veneto a quattrocchi! Sono assorta a sentirli, col pubblico che aumenta gradualmente, e mi ritrovo davanti Simone, l’artista intento a piantare incensi a terra. “Perché li metti dappertutto?!”, “Per l’odore delle concerie!” è la risposta. E i FM fanno proprio divertire, head-banger, accenni di pogo che si spengono in breve, perché il pubblico è come stranito, vergognino, un pubblico indie a quanto pare. Ma i FM suonano in bellezza, e tra un po’ è il turno dei Super Elastic Bubble Plastic. Vado nel backstage, e per la prima volta vedo la scritta gialla e rossa “Crossodromo ai girasoli” dipinta in carattere egiziano su una casetta-bar impacchettata di rete verde. Al di là la pista da cross. E mi sovviene il ronzio dei motori che prima aveva attirato un secondo della mia mente. Al di qua, batterista e chitarrista new-entries dei Dimensional Man, al di sotto Capovilla, di fianco ad Andreas, un amico. E per me che non li avevo mai ascoltati, e che avevo un’immagine completamente errata di come fossero, è stato come un po’ di neve che si scioglie nella bocca, un appuntamento segreto che m’ha lasciata irradiata. E che m’ha distolto dal concerto dei SEBP, unico gruppo non-veneto della serata, che riprendo verso la fine col pubblico infervorato e compiaciuto. Ormai siamo in 600, e siamo pronti (io al massimo della curiosità e concentrazione) per gli ODM. Si aspettavano qualcosa come il doppio di platea, domani è la festa della Madonna dei Berici, o degli Otto, ma è pure venerdì e la gente lavora, musicisti compresi. Comunque, si preparano la batteria zebrata al centro-avanti e la chitarra (linee troppo anni ’70 qualcuno dice) isolata. Dopo qualche attimo, entra il cantante-bassista ed insorgono con "Saint Roy", proseguono con "Tell Me Marie", "1000 doses of love", "5 square Yards", che fa’ impazzire i fans, e tra i sarcastici “Siete meravigliosi” Capovilla coglie uno "yeah" dal basso, e risponde “You don’t know me, you think I’m yeah”, e da qui la follia negli occhi di quest’uomo, assassini ed imbevuti, che presenta "Women" in questo modo: “La prossima canzone è dedicata a colmare una gravosa gravissima gravosissima deficienza nella musica popolare italiana, che parla solo della figa, e noi siamo stufi di questa cazzo di figa. Diciamolo che non ce ne frega un cazzo della figa, perciò dedichiamo questa canzone ai vecchi, e ad uno in particolare”. E continuano il concerto, piuttosto acclamati e piuttosto sprezzanti. Un grande concerto rock, con tanto di cantante fuori di cranio, maledetto e maldicente, che ad un certo punto preso dalla foga dell’interpretazione rovescia tutto, microfono, asta e pedale del basso che si scorda. Qualche minuto per riassestare il tutto e riprendere con le ultime due canzoni. Capovilla sembra sfinito isterico nel mezzo d’una crisi, un’elettricità che, per quanto penso io, dà un bel valore alla musica, rappresenta esistenza e vita e dolore e musica in uno. That’s art! E anche se non è la vecchia formazione (un certo senso di rimpianto aleggia tra i fans e non solo?) il trio mi è piaciuto moltissimo. E che suonano bene lo ammettono pure gli scettici. Il pubblico sembra intimorito, a tratti sembra aver paura di esserci, di comportarsi. Come se fosse peccato divertirsi in questa provincia veneta e bigotta. Ma questi pensieri sono problemi miei e della mia origine (veneta appunto) credo. Paolo dice: “Lo spettacolo è finito, e come in un cinema è ora di svuotare la sala. Voi avete ragione a voler altri dieci minuti di musica, visto che si tratta di musica e non di cinema, ma in un cinema alla fine del film, la sala si svuota”. E con queste parole i tre se ne vanno a farsi incitare per il bis. Vorrei solo che tornassero fuori, e succede, e tra sincopi e stacchi e stop/start troppo prolungati, finiscono con due tracce ("No North" e "Babylon") il concerto e la serata. Vago e vagheggio come al solito, saluto la voce dei Forty Moostachy che sa che il medico dei piedi si definisce podologo e si congeda con la perla “Se non ci vediamo più…c’è più tempo che vita!” e si allontana col passo del muflone, e anche se suona solo con due note, il mi e il sol, è una vera sagoma. La gente che resta si raccoglie nel retrò, lo staff, qualcuno dei gruppi (eccetto Capovilla, eccezione…), tra lenitivi, il tiramisù dei 18 anni di Mattia, la luna piena dietro di noi, tovaglie stropicciate, bottiglie rotte, discorsi masticati + risvolti di realtà incastrata. Andreas mi lascia il cd degli ODM, ma la festa è finita, ognuno sale nel rispettivo furgone, e vorrei che la neve sciolta in bocca delucidasse i miei occhi sbarrati che non vogliono lasciarli andare.
Come al solito rimango spaesata allora giro in tondo, per poi seguire il furgoncino che se ne va, vanno a Venezia. Bella Venezia quando non c’è gente. Allora vedo Matteo, l’organizzatore di festival più rassomigliante a Felix The Housecat che ci sia. Mi fa’ la grazia di portarmi a casa, ma prima un altro dolce pensiero: Simone l’artista che alle 3.30 non va a casa ma ha voglia di fare un giro in bici, e che temeva di lasciare le sue opere al sole, ma che il sole ha donato loro visto che la gente stava con gli occhi sgranati a rimirarle. A casa lui le tiene un po’ al sole e un po’ all’ombra. Comunque io e Matteo andiamo, domani la squadra sarà qui alle 9.00 per montare il service degli Africa Unite e alla fine del Festival buttano le braccia per un anno. Per strada Matteo dice che ci sono rane, ma io vedo solo foglie. Non ho proprio idea di chi avesse ragione tra i due. Entro in casa mia, in camera mia, una soffitta tutta colori e tendine, ma stanotte alle 4 straborda di libri, Balzac, Groucho Marx, dizionari del cinema e della musica, e un biglietto: “Scusa Cla, l’allergia alla polvere è ormai insostenibile”. E dopo tutta questa poesia il mio corpo è stanco, giunge l’oblio.
Venerdì 08 settembre200.
Il programma include E.Drunks, Amari e Africa Unite. M’accoglie al parcheggio il sound-check degli Amari. Il tempo è incerto, il vento è bretone e pulito, il sentiero è polvere, grumi di grigio e azzurro. Va benissimo. Assaggi di colore e una strana calma intorno, la calma che precede la tempesta. Sulla rampa da skate preparata per l’indomani scivolano i più piccoli, si stagliano i più grandi nel blu del cielo che è lo stesso blu dei miei jeans. La brace dello stand Sud-Tirol scoppietta, e pure qualche lampo. Io penso che i concerti col tempo incerto sono i migliori. Povera ingenua. Aspetto l’opening davanti l’esposizione di Simone: legno dipinto, disegni espressionisti o cubisti, girasoli, cappelli di piume e paglia, conchiglie e lune appese ai fili, ma il mio preferito è una finestrella di tondi di vetro incorniciata dal disegno di un corpo. E scatole di incensi, anche se l’odore delle concerie non si sente più, o più semplicemente ne sono assuefatta, e flebili candele. Dal parcheggio il palco sembra un circo con le luci gialle e rosse, alla mia sinistra un campo di cicale annulla i suoni per un attimo, il cielo è lilla e cenere, e la luna è solo una torbida goccia di latte. Sono le 21.00 e suonano gli E.Drunks, band dance-pop sulla scia degli Amari, fronteggiati da 10 miseri cristi, ma loro sornioni se la ridono. Cade qualche goccia. Carini se non cantano, loro. L’ultima nota della band è stata l’ultima nota della serata. Il vento si alza insieme alla pioggia, ed è un tutt’uno coi lampi, i fulmini, i tuoni. Un uragano si abbatte sul Parrock Festival. Cadono le transenne, le torri del palco, i gazebi, le insegne “Prodotti tipici del Sud-Tirol”, tra un po’ cade anche lo stand sotto cui ci ripariamo tutti. Tutti tranne gli eroi vestiti di plastica gialla che salvano quello che si deve salvare, e il forzuto tirolese che come un Ercole cerca di fissare con sforzi sovrumani il tendone dello stand, che si slaccia come una vela in mare vento forza 10. Pianti rotti, sguardi svuotati e increduli. La forza della natura. Gocce amare più amare degli Amari che non hanno suonato. E pensare che poteva essere la mia serata preferita.
Sabato 09 settembre 2006.
Il sole splende sul Veneto e su Montecchio. Dalle 19.00 i migliori skate team d’Italia voleranno sulle rampe con tanto di cronaca che intrattiene il pubblico di giovani pulzelle, punkettoni e rasta-men: “Più li incitate più si esaltano, sapete, un po’ come fare l’amore”. La serata prevede Cruel Boxes, Vanilla Sky, Linea 77 e djset di Tying Tiffany. I tre gruppi suonano al meglio, un certo senso di gratitudine verso l’organizzazione che ha pulito e sistemato tutto dopo la tempesta. I Cruel Boxes rompono le bacchette e perdono le scarpe. Rock screamo serrato e cupo. Scaldano il pubblico, e si chiedono “Perché non si poga al Parrock Festival?”, provocazione che ancora non viene colta a fondo. I successivi si presentano così: “Noi siamo i Vanilla Sky e veniamo da Roma”. La band è una sorta di Blink 182 nostrani belli e simpatici. “Ok, ragà, fa un freddo cane! L’estate sta finendo, un anno se ne va…”. “E che robba è questa…non lo conosco”…con tanto di pop, punk, piedi sulle casse, cantante chitarrista che si stende, profili alla Franz Ferdinand, maglietta dei Coldplay e così via. Propongono un ultimo brano più stoner, in cui si scatenano salti in aria, effetto fumo, luci, e la gente dabbasso gode, anche perchè tra poco è il turno dei Linea 77. Si contano ormai più di 1500 teste, ubriache, felici, cariche, e il Festival ha preso la forma desiderata. Intro di musica classica: entrano gli attesissimi. Cattivi come non mai, degli animali da palco, e che piaccia o no, una cosa è sicura: ti spaccano i timpani e non ti mollano. Nitto in primis, che è irresistibilmente tribale e incazzato. Allora tra tracce nuove e meno nuove, intermezzi carillon e disturbi radio, cavalli di battaglia, “Sbaglio o qui c’è puzza di merda!”, nasi arricciati, divisione del pubblico in due squadre (la A contro la B e la B contro la A), i fan si rovesciano sopra le transenne, lanciano le teste e i busti, osannano il gruppo, finchè dopo 16 brani arriva un outro che è una voce ipnotica inquietante anche se dice: “Adesso il concerto è finito, e noi siamo tutti più felici, perché abbiamo ascoltato la musica, e provato emozioni…”. E già si sente il dj-set di Tying Tiffany riprendere gli animi da un po’ più indietro, un caschetto rosso punk sotto le cuffie sopra un cubo. Pennella la serata di techno, electro, passa i Rage Against the Machine, conquista un sacco di cuori tipo il mio. Ha freddo anche lei, ma continua a picchiare graziosamente i tacchi, e shakerare la sua testolina di ciliegia. Qualche sorriso, si diverte, ci sa fare con la techno, lo stile, Londra, il glam. Aria sommessa da rave. Nastri rosa gialli verde fosforescenti danzano. Sul palco giace qualcuno degli organizzatori disperso in una caldissima luce arancio. Fronti larghe non più corrucciate, abbracci e risate. Una gran bella soddisfazione per un festival sudato e controvento come lo è stato il Parrock. Faccio i miei complimenti a tutti quanti e me ne vado. Con in mente un pensiero indie scritto di viola su un Amaro. Kiss me first I'm shy.
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L'articolo FiatParrock Festival - Montecchio Maggiore (VI) di Claudia Selmi è apparso su Rockit.it il 2006-09-14 00:00:00
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