A volte ho paura di morire,
essere contagiato
sparire per sempre
e non poter più guardare negli occhi di Nina,
di mio figlio, delle persone care.
Non riuscire a portare a casa i progetti,
mantenere le promesse
nei limiti delle deadline.
A volte invece ho forza
e incredibili rivelazioni.
Ci sono molti motivi per cui Atlante delle case maledette, il nuovo libro di Francesco Bianconi pubblicato da Rizzoli Lizard sia un oggetto assolutamente da avere. Innanzitutto è arricchito, anzi ritmato dalle illustrazioni di Paolo Bacilieri, profonde non come tombe ma come acqueforti del Seicento, ma di certo non è tutto. Ve lo consigliamo per almeno tre ordini di ragioni.
La prima, abbastanza banale, è che se siete curiosi di sapere cosa accade nella galassia di Francesco Bianconi, questo Atlante delle case maledette è una tappa obbligata. E la metafora del viaggio non è affatto sbagliata da accostare a un testo come questo, esattamente come, pochi giorni fa, è stato anche detto durante una presentazione online alla Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano dallo stesso Bianconi intervistato da Giulia Cavaliere: “Volenti o nolenti, in questi quasi due anni abbiamo dovuto fare i conti con le nostre case e i nostri spazi sono diventati praticamente gli ultimi spazi dove si poteva vivere se non al sicuro almeno più tranquilli. Prigionieri temporanei certo ma di una specie di galera nella quale, in molti casi, noi stessi abbiamo scelto di vivere”.
Come secondo motivo, l'Atlante delle case maledette è un libro allo stesso tempo contemporaneo e eterno perché racconta e rende protagonista il concetto di casa. Attenzione: questo è un atlante, quindi di fatto un elenco di case, vere o presunte, in cui lo stesso Bianconi ha transitato e abitato. Ma nel libro non si parla solo del concetto, un po’ astratto, della casa-nido che da Pascoli in avanti, fino ad arrivare ai tanti libri sulla pandemia, abbiamo imparato a conoscere. No, qui ogni casa è accompagnata all’inizio non solo da una sorta di scheda tecnica che riporta l’anno di costruzione e l’architetto, ma anche da una serie di descrizioni di Bianconi, che si sofferma sull’elemento materico della casa. Levandosi i panni del musicista abituato a trattare con l'astratto, Bianconi parla di mattoni e parquet, di intonaci e di infissi, senza alcuna ritrosia o rimorso ma anzi dando corpo, non solo anima, al suo racconto.
Il terzo motivo per cui vi consigliamo un volume come questo è l’eccentrico dolore che si prova nel leggerlo, un dolore che vorremmo quasi definire terapeutico se non lo volessimo accostare a certe pratiche da santoni di internet che proprio non ci vanno giù. Bianconi, e in questo senso l’aderenza con il suo essere cantautore e il suo stesso canzoniere è pressoché totale, come una specie di rabdomante ci porta a spasso per i ricordi delle “sue” case, ancora una volta, vere o presunte. Ecco che l’iniziale metafora del viaggio ritorna ed anche il dato materiale dell’abitazione.
Proprio come nell’illustrazione di copertina, sulla quale campeggia il volto di Bianconi con una chiave che entra in una ipotetica serratura al centro esatto della propria fronte, riusciamo a entrare nell’immaginario di Francesco Bianconi direttamente dalla porta principale, anzi, dalle porte principali delle case in cui - chissà se è proprio così - ha abitato davvero.
Lo seguiamo in un andirivieni nel tempo, senza una direzione ma con un fine ben preciso: in maniera lenta ma inesorabile assistiamo alla crescita di un individuo che, proprio come per tutti noi, non è mai orizzontale e pianeggiante ma a scossoni, piena di pendii e pure verticale. Ci sono anche momenti di horror puro che, ovviamente, abbiamo apprezzato un sacco.
Senza volervi svelare troppo su quello che si potrebbe definire un libro molto musicale ma anche molto sperimentale, vi basti sapere che l’espressione mon petit colombin avrà un peso capitale nell’economia del testo, così come l’avrà un certo appartamento in Porta Venezia. Un peso almeno pari alla crescita, intima e universale, di un artista fatto di tante persone/personalità che ha attraversato molti anni a pensare all’arte, alla vita ma anche alla morte. E questo lasso di tempo, più o meno lungo, lo ha attraversato anche e soprattutto all’interno di case che non sono dei nidi ma dei portali verso molteplici mondi possibili.
“Credevo in Dio perché comincio ad averne paura sul serio. Era un mostro divenuto reale, una minaccia”. Questo, come emerge da una riga rubata da una delle case, è doloroso. Ma una volta che l’avrete letto sarete un po’ meno colombi e un po’ più verticali. Ve lo assicuriamo.
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L'articolo Rifugio o prigione: per Francesco Bianconi tutte le case sono un po’ maledette di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2021-05-17 14:17:00
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