Fare uscire il nuovo disco nel mese del proprio compleanno ha un indubbio significato: una rinascita. E lo era, quella di Francesco De Gregori, a due anni dal precedente “Buffalo Bill” e dalle contestazioni feroci che l’avevano toccato in due serate consecutive, prima al Palasport di Pavia, poi al Palalido di Milano, dove i contestatori di Autonomia operaia (tra cui Gianni Muciaccia, ragazzo di Jo Squillo e futuro membro dei punk Kaos Rock) erano riusciti a interrompere il concerto, salire sul palco, inseguirlo nei camerini, sottoporlo a un processo popolare perché non abbastanza impegnato sui tre fronti dei testi (troppo intimistici!), dei prezzi popolari (il biglietto, 1500 lire, era basso, ma lo slogan era che la musica doveva essere gratuita) e della devoluzione degli incassi alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare allo scopo di finanziare la rivoluzione. Qualcuno aveva perfino tirato fuori una pistola e gliel’aveva puntata alla tempia: “La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!”.
(foto via)
Poi, grazie al cielo, com’erano venuti se n’erano andati. Ma qualcosa nell’animo di Francesco De Gregori si era spezzato. Quella, a due giorni dal suo compleanno, che cade appunto il 4 di aprile, era la classica goccia che fa traboccare il vaso. A settembre 1975, contestazione al Festival del proletariato giovanile di Licola; a ottobre, concerto per “A – rivista anarchica” a Milano, in un clima tesissimo; a febbraio 1976, durante un tour nel centro-sud per i Circoli Ottobre, sorta di centri sociali di Lotta Continua, contestazione a Pescara da parte delle femministe del servizio d’ordine quando canta di “Giovanna che faceva dei giochetti da impazzire” in “Non c’è niente da capire”; a Bari il concerto viene interrotto e si trasforma in un’assemblea sul prezzo dei biglietti. Poi, appunto, Pavia e Milano. È che uno si stufa. Così, la sera stessa di quel 2 aprile, De Gregori aveva dichiarato a Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della sera: “Forse non canterò mai più”. A giugno, aveva scritto una lettera a Muzak, l’agguerritissimo mensile romano di musica alternativa vicino agli ambienti della sinistra extraparlamentare, dove scrivevano Fernanda Pivano, Giaime Pintor, Sergio Saviane, Lidia Ravera, Gino Castaldo, rispondendo alle accuse su compensi (400.000 lire a sera facevano scandalo), canzoni poco impegnate, schieramento politico.
Poi, si sa, il tempo cura le ferite. A ottobre 1976 prova ancora a fare qualche concerto, in provincia: prima Sicilia, poi Liguria. Ma ci sono ancora contestazioni, che si allargano anche a tanti colleghi: Venditti, Bennato, De André… così lascia. Gli viene meno l’amore per la musica. Si trova un lavoro in una libreria romana, a Santa Maria in Trastevere. Poi, il 5 luglio 1977, l’intervista bomba, rilasciata a Gianni Pennacchi de La Stampa: “Ho chiuso con la musica, direi in modo definitivo. Non ho intenzione di incidere altri dischi, forse farò ancora qualche concerto in autunno, ma sarà per l'ultima volta”. Sì, c’è un contratto con la RCA che lo obbliga ad incidere altri due dischi, ma lui dice che se sarà costretto a rispettarlo “saranno due dischi che fin da ora non mi piaceranno”. E il motivi sono la mancanza di ispirazione, la stanchezza nei confronti del personaggio che gli è stato disegnato addosso e per i meccanismi dell’industria discografica: “Non riesco più a scrivere canzoni che mi piacciono. Insomma, il mio lavoro non mi dà più gioia. Se abbozzo una canzone che mi piace, è sufficiente il pensiero che poi dovrà essere incisa in un disco, immessa sul mercato in un certo modo, e me ne passa la voglia”.
(Lilli Greco e Francesco De Gregori nel 1978)
Però, piano piano, l’ispirazione torna. Prima due o tre canzoni, compresa “Generale”. Quindi tutto il resto dell’album che intitolerà, a ribadire il senso di rinascita, semplicemente “De Gregori”. Disco tormentato. Prima tenta di dargli una veste jazz, con il batterista Gianni Ascolese, il chitarrista Michele Ascolese e il bassista Giuseppe Caporello, ma non funziona. Allora chiama i vecchi amici Cyan, ex backing band dell’amica Patty Pravo e già con lui ai tempi di “Rimmel”: stavolta, con Franco Di Stefano a batteria e percussioni, George Sims alle chitarre e Alberto Visentin a pianoforte e tastiere (più Mario Scotti al basso), le cose vanno un po’ meglio, ma non tanto da convincerlo. Allora chiama il vecchio mago con cui s’era scontrato più volte in RCA, Lilli Greco. E con lui il miracolo si compie: le canzoni scorrono, trovano gli arrangiamenti giusti. Un consiglio qui, un’aggiustatina là: tanto che Greco non compare neppure nei crediti del disco.
Ripartire, già: ma da dove? Dalla vita privata, dagli affetti (il 10 marzo s’era sposato con Alessandra Gobbi, vecchia compagna dei tempi del liceo; testimone di nozze Walter Veltroni, allora segretario della FGCI, la Federazione Giovanile Comunista Italiana, e direttore di “La città futura”, suo organo ufficiale), dai ricordi dell’infanzia, dalle aspirazioni ideali a un mondo più giusto, ma senza estremismi. E dalle grandi passioni: Fellini e Dylan. Dylan, già, di cui De Gregori ha sempre ambito a essere l’alter ego italiano. Quel Dylan che già in due occasioni aveva inciso una doppia versione di un proprio brano all’interno di un proprio album: era accaduto con “Alberta #1” e “Alberta #2”, in “Self Portrait” (1970), e con “Forever Young”, in “Planet Waves” (1974), altro album della rinascita. Quest’ultima, poi, aveva colpito molto De Gregori: una versione lenta alla fine del lato A del 33 giri, una veloce all’inizio del lato B. Un augurio di buona vita per sé e per suo figlio Jakob, di cinque anni.
De Gregori nel 1977 ha dei bimbi in arrivo e un matrimonio in progetto, in più ha pensato di cambiare mestiere e per un po’ l’ha fatto. Non era stato forse lui a dichiarare a La Stampa che “in fin dei conti ho solo 26 anni: forse sono troppo giovane per interrompere un mestiere, ma non sono nemmeno troppo vecchio per iniziarne uno nuovo”? Nasce così “Renoir”, canzone tanto enigmatica quanto bella, in due versioni, alla Dylan: alla fine del lato A in arrangiamento brioso e circense (un po’ sullo stile di “Rainy Day Women No. 12 & 35”, da “Blonde on Blonde” del 1966, la cui intro De Gregori userà nelle versioni alternative di “Buonanotte fiorellino” contenute in “Vivavoce” del 2014 e in “Pubs and clubs” del 2012; ma non c’è solo Dylan, come si vedrà); all’inizio del lato B in versione delicata e intimista.
Un tema della canzone è chiaramente quello del viaggio, comune a tante altre canzoni dell’album, da “Generale” a “Raggio di sole”. Un viaggio che è metaforico, anche se all’inizio viene descritto con una serie di equazioni che si richiamano alla più lapalissiana realtà: “Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare / come il sole all'orizzonte la sera”. E qui scatta il paragone che illumina la voglia di viaggiare ancora, mettersi in discussione, andare avanti e scoprire nuove cose nella vita: che aerei, navi e sole siano fatti per viaggiare nello spazio e nel tempo è vero “come è vero che non voglio tornare / a una stanza vuota e tranquilla / dove aspetto un amore lontano / e mi pettino i pensieri / col bicchiere nella mano”. Anche se è un’immagine già usata in “Ipercarmela” e in “Atlantide” (entrambe da “Buffalo Bill”, 1976), pare di vederlo, De Gregori, nel suo periodo buio, chiuso in una stanza, a meditare su cosa fare della propria vita, bevendo qualcosa per distendere i nervi, sofferente per il disgusto succitato verso il mondo della musica e per la mancanza di ispirazione. Anche perché questa descrizione ricorda una scena del suo film feticcio, “Otto e mezzo” di Federico Fellini, del 1963, il cui protagonista è un cineasta in crisi di ispirazione: in una scena, il protagonista Marcello Mastroianni seduto su una sedia in una stanza bianca e spoglia (forse un bagno) riflette proprio su questo problema (“Una crisi di ispiration? E se non fosse per niente passeggera signorino bello? Se fosse il crollo finale di un bugiardaccio senza più estro né talento?”), versandosi del liquido (un profumo? Un liquore?) sulla testa, prima di andare a dormire.
Qui però, nella prima strofa di “Renoir”, c’è “un amore lontano”, che il De Gregori di un tempo aspettava. Chi sarà? Personalmente penso che si tratti di un simbolo, che magari pigli qualche tratto da qualche persona un tempo realmente presente nella vita di De Gregori, ma che trascenda il dato biografico. Un simbolo di che? Un po’ del se stesso dei tempi andati, un po’ della sua ispirazione: nella seconda strofa, De Gregori si rivolge a “chi di voi l'ha vista partire”, invitandolo a dire “pure che stracciona era / quanto vento aveva nei capelli / se rideva o se piangeva”. Straccione un po’ lo era stato pure lui, con quell’aria trasandata mezza fricchettona, mezza da studente engagé di sinistra; stracciona era stata la sua musa, che lo aveva portato a registrare l’album che era seguito al successo colossale di “Rimmel”, il già citato “Buffalo Bill”, curandosi poco degli arrangiamenti, per autoboicottarsi commercialmente (non riuscendovi, peraltro). Il vento nei capelli può alludere ad “avere la testa tra le nuvole”, ad essere cioè in preda ad astratti furori (per dirla con Vittorini; ma anche qui c’è forse una ripresa di “Atlantide”, in cui diceva “lui adesso vive in California / da sette anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole”) che lo portavano a ricercare un’espressione ermetica (e difatti non si capisce “se rideva o se piangeva”), tipica del Dylan più visionario: “De Gregori”, difatti, è l’album del passaggio dalla vecchia cripticità a un’espressione più immediata, e le sue canzoni sono deliziosamente sospese tra questi due mondi. Il resto della seconda strofa pare alludere ai tour che lo avevano portato su e giù per l’Italia, “ai suoi piedi” perché ormai, a modo suo, divo della canzone. Questa musa stracciona, suo alter ego, però sta “giocando a carte col suo destino”: e difatti andrà incontro alle contestazioni e alla successive depressione e tentazione di lasciar perdere tutto.
(foto via)
La terza strofa, se questa interpretazione è corretta, fotografa il De Gregori attuale, pronto a fare i conti col proprio passato, a superare le incertezze (“Ora i tempi si sa che cambiano / passano e tornano tristezza e amore”), ad accettarsi per quello che è e non rimpiangere le occasioni perdute (“da qualche parte c'è una stanza più calda / sicuramente esiste un uomo migliore”) e pronto a una nuova fase della propria vicenda artistica (“io nel frattempo ho scritto altre canzoni / di lei parlano raramente”), meno criptica ed ermetica, e della propria vita, che lo vedrà affrontare gioiosamente le responsabilità che derivano dall’essere marito e padre.
“Renoir”, alla fine, parla della trasformazione che sta vivendo De Gregori: il passaggio da un’adolescenza prolungata all’età adulta, dal rifiuto della realtà alla sua accettazione facendola propria. E in questo la sua ispirazione si rinnova: ecco il finale in cui afferma “ma non è vero che io l'abbia perduta / dimenticata come dice la gente”. La sua Musa è sempre lì: solo mutata. In questo viene ribaltata la conclusione di “Atlantide”: “ditele che l'ho perduta quando l'ho capita / ditele che la perdono per averla tradita". C’è sicuramente un forte ricordo della dylaniana "Girl from the North Country", anch’essa incisa in due versioni: una, fortemente folk, in “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963); l’altra, nello stile country più mainstream, in “Nashville Skyline”, in coppia con Johnny Cash (1969).
È infatti evidente che i momenti di passaggio possono essere visti duplicemente: come perdita di parte di sé e come felice aspettativa di tempi futuri. Ecco perché anche “Renoir” è incisa, come le tre canzoni di Dylan ricordate, in due versioni: quella circense, nel cui arrangiamento è forse presente anche un ricordo del Nino Rota di “Otto e mezzo” (ad esempio la presenza di una scala cromatica nella melodia, inusuale nel De Gregori precedente e che invece comparirà anche in “La donna cannone” del 1981, che De Gregori stesso ha dichiarato ispirata all’opera di Rota) esprime la stessa spensieratezza di “Rainy Day Women No. 12 & 35” e del finale del film di Fellini, in cui il protagonista dice addio ai fantasmi del passato e ritrova la creatività; quella malinconica e pigra del lato B, invece, esprime il rimpianto del passato, ma non a caso viene cantata con voce pacata, sì, ma ferma, come a dire che non si tratta di una grande perdita.
Rimane il titolo: “Renoir”, perché? Ipotesi: la scena citata di “Otto e mezzo” in cui il protagonista va a dormire ricorda quella di “La regola del gioco”, film di Jean Renoir del 1939, considerato uno dei capolavori più grandi del cinema di sempre. Si tratta di un’intricata vicenda di amori incrociati (il che rimanda al dato biografico alla base della metafora della canzone di De Gregori e già svolto in “Atlantide”), in cui lo stesso regista interpreta la parte di Octave, un musicista fallito (non era forse il protagonista di “Atlantide”, cioè lo stesso De Gregori, “diventato un grosso suonatore di chitarre”?) che a un certo punto dichiara: “Ho voglia di sparire in un buco. (...) Non vedere più niente, non dover scegliere ciò che è bene, ciò che è male. Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni”.
Più o meno quello che deve aver pensato De Gregori dopo le contestazioni di quel maledetto 1976.
---
L'articolo "Renoir", o della voglia di ripartire di Francesco De Gregori di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2016-04-04 10:18:00
COMMENTI (1)
@re grande articolo, da grande fan di de gregori, ho apprezzato molto