Forse un giorno, lontano da questo, riusciremo a comprendere il mistero del tempo, che da sempre affligge l'essere umano. Diventeremo come quelle entità luminose che gli scienziati chiamano stelle vagabonde, che ringiovaniscono mentre scorrono le ere siderali, e siederemo come gli dei sul trono ambrato dell'eterna fanciullezza. Ed io ti avrò al mio fianco. Non ci domanderemo più quale sia il nome dei giorni che stiamo vivendo e non avranno importanza i pensieri inutili su quanto siano distanti le sere in cui ridevamo forte senza motivo apparente, e della nostra ribellione adolescenziale erano piene le strade, i muri, i palazzi, e i nostri cuori, mentre le tasche restavano sempre troppo vuote, o forse bucate.
Quando il Maestro sale sul palco e con passi affaticati raggiunge la coltre di tappeti su cui andrà a sedersi non comprendo ancora del tutto il nesso tra le mie sensazioni e la sua figura, che sembra affaticata, segnata dagli anni trascorsi. Le luci blu e rosse che si irradiano sulla band alle sue spalle contrastano con i toni dorati e delicatissimi con cui i fari centrali accarezzano il volto. Sono le mani a tradire il segreto, agitandosi più di quanto sappia fare il resto del corpo, mentre le prime note fluttuano nella penombra lunare del teatro d'Annunzio. Eppure, mentre la voce magnifica irrompe, miracolosamente contenuta entro i confini di un uomo troppo minuto, come un'ingenua immagino di raccontare – quando sarò tornata nell'intimità della mia casa a fronteggiare il deserto bianco del foglio virtuale – il concerto di un artista grandioso e ormai stanco, che pure delizia il suo pubblico in un modo nuovo seppur distante dall'energia dirompente del passato. Complici i brani di “Apriti sesamo”, riflessioni poetiche e amare sull'affannarsi dei giorni, la gioventù smarrita, il senso onnipotente di una fine considerata compagna e non più nemica. Battiato non parla, non interagisce, solo dopo cinque o sei pezzi, per la prima volta saluta i presenti, rispondendo agli applausi con un “Muchas gracias”.
E poi, all'improvviso, qualcosa cambia, dapprima in maniera impercettibile, una vibrazione nell'aria, un sussulto, e man mano incalza la potenza che tuona nel violino de “La canzone dei vecchi amanti”, un lamento languido all'inizio che cresce fino a diventare imperiosa richiesta d'attenzione che si aggrappa all'anima e alle viscere, disperato naufragio dei sensi che continuano a lottare. E ancora, altre canzoni e altre parole raccontano amori passati – su tutte “Sfiorivano le viole”, pura eleganza - e si fa spazio la consapevolezza che persino nell'assenza di lieto fine pur sempre d'amore si tratta, di quel sentimento nemico del tempo e delle distanze. “Te lo leggo negli occhi” è anticipata da una dedica: “Non me ne vogliano gli uomini presenti, ma questa è per tutte le donne che sono qui stasera”. Una ragazza dalle prime file grida il suo accorato: “Ti amo”. Il maestro sorridente risponde: “Altrettanto”. e va avanti con il suo spettacolo.
Lo spartiacque è la sorpresa inaspettata, il soffio al cuore di natura elettrica, torpedine o medusa che sappia paralizzare il respiro per un'eternità d'istante. Un synth viene portato sul palco. Mani nodose, ma sapienti ed esperte, dita che si affannano nella ricerca sensuale di quel suono metallico e vivo come poche cose al mondo. È Battiato a suonare, pescando dalla bolla confortevole e infinita dei propri ricordi i brani dei primi album, invenzioni antiche e nuovissime, e le luci assecondano la danza meravigliosa delle sue nervature che sembrano essere naturale prosecuzione dei tasti. Non un musicista, ma una sorta di creatura mitologica in cui uomo e strumento si confondono in un'entità mai conosciuta da occhi o orecchie umane, è trasformazione, mistero o misticismo. “Aria di rivoluzione” ci coglie impreparati con la sua bellezza insolita, influente e progressiva, una serie di esperimenti sonori si susseguono ignari del nostro stupore.
La conseguenza naturale di quest'energia, simile a quella di un lampo, è il risveglio dei sensi, primavera che arriva in ritardo, emozioni il cui tepore cresce fino alla sconfitta del letargo. Il Maestro abbandona la coltre di tappeti e, miracolosamente ringiovanito di vent'anni, si alza in piedi. “La cura”, in quella versione magistrale in cui il pianoforte è sovrano, è il sospiro collettivo dell'anfiteatro vibrante e languido. Su “Tutto l'universo obbedisce all'amore” qualche incertezza: “Erano due giri o quattro prima di iniziare?” domanda Battiato alla band. E si prosegue sulla scia dei brani che raccontano fremiti, emozioni neonate, per passare poi alle canzoni della ribellione, degli ideali che agitano le notti insonni con la propria gioiosa irruenza. Su “Up patriots tu arms” abbandoniamo le nostre poltrone per correre a perdifiato lungo le scalinate e avvicinarci al palco il più possibile, all'unisono, come se una forza sconosciuta guidasse i sensi dei presenti tutti. La rapida e esaltante successione di “Bandiera bianca” e “Voglio vederti danzare” muove i corpi e scolpisce nell'anima la certezza di aver assistito a un concerto indimenticabile. Battiato è lì, rinnovato Adone, davanti a noi, quasi bambino, traboccante di vita.
La conclusione è affidata a “Summer on a solitary beach”, e in quell'invocazione dolcissima al mare sembra di scorgere la volontà struggente di un ritorno al ventre materno, alla placida quiete uterina, termine ultimo di un percorso a ritroso, alle proprie origini, e quando Franco intona per noi “Stranizza d'amuri”, il sospetto diventa certezza, mentre l'assolata Sicilia dei padri richiede magnifica il suo tributo, la stessa Sicilia in cui bambina ascoltavo per la prima volta “L'era del cinghiale bianco” nel salotto buono della nonna, unica eredità di un padre assente, nel tentativo goffo di volteggiare su me stessa più veloce di quanto sapessero fare i vinili, e i soprammobili caduti e infranti erano il sacrificio necessario al mio entusiasmo.
L'ultima sorpresa per il pubblico: “Una volta mi esibii con un grandissimo pianista che sbagliò due note durante la sua esecuzione. Alla fine del concerto si scusò con i presenti, affermando che avrebbe suonato quelle due note sbagliate per rimediare. E così fece. Per questo, poiché la prima metà di “Tutto l'universo obbedisce l'amore” non è venuta un granché bene, abbiamo deciso di correre ai ripari, suonandola nuovamente per voi.”
È la fine del viaggio, di questo cammino a occhi bendati indietro nel tempo – dalla morte alla vita che si rinnova ancora e ancora, passando attraverso l'infelicità, i sussulti, la virulenta passione delle rivoluzioni. Andare via è conservare negli occhi i segni del miracolo, del tempo che scorre al contrario, privo di ogni logica, lontano da ogni schema noto.
“L'artista nasce vecchio e muore giovane, al contrario dei realisti che, avendo, come si dice, i piedi per terra, sanno solo nascere bambini e morire rimbambiti, come tutti gli altri.”
(Michel Serres)
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L'articolo Live report: Franco Battiato al Teatro d'annunzio, Pescara di Roberta D'Orazio è apparso su Rockit.it il 2013-07-31 00:00:00
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