Il futuro del rap italiano: tutti vestiti con la roba della Decathlon

In Francia spopolano i video in cui i rapper indossano piumini Kalenji o felpe Quechua o Kipsta. Un look più vicino alla propria comunità rispetto ai brillocchi delle star di casa nostra, che sa di riscatto e identità. Una riflessione e un auspicio

Rap total look Decathlon, foto via nl 'Made in France'
Rap total look Decathlon, foto via nl 'Made in France'

Ricordo bene la sensazione che provavamo quando in vetta a un falsopiano, a pochi passi dall'uscita per Cape de Antibes, la cattedrale appariva maestosa e accogliente. Le nostre tasche erano già state alleggerite dalle monete depositate nei cestelli degli esosi caselli posizionati ogni poche manciate di chilometri lungo l'Autoroute 8, tutto il resto se ne sarebbe andato nell'altrettanto esoso Auchan sotto casa in birrette e sottomarche di brie. 

Ma bastava la sola vista delle porte a vetri della Decathlon per farci sentire un po' meno poveri. Noi figli della medio borghesia, il cui unico merito era quello di avere tra gli amici il figlio di un caparbio investitore immobiliare, almeno per gli standard della provincia montanara. Quel posto era il paradiso perduto, o meglio non ancora arrivato. Ci sentivamo fighissimi per aver scoperto quel negozio che in Italia ancora nessuno conosceva – la Decathlon nasce a Lille nel 1976 e solo nel 1993 apre in Italia –, piena di prodotti di cui non sapevamo di avere bisogno e di marche di vestiti tecnici con i nomi da generatore automatico. Il tutto a prezzi accessibili, cosa che a due passi da Montecarlo e dalla Croisette aveva l'effetto di una specie di miraggio.

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Cominciammo a comprarci di tutto, per lo più cose che non ci servivano in alcun modo o oggetti che utilizzavamo in maniera assolutamente decontestualizzata. Ancora oggi la Decathlon è l'unico negozio di Milano in cui mi si deve tirare fuori con la forza, l'unico shopping che contemplo e una sirena per me irresistibile con le sue insegne biancoazzurre e gli integratori alle casse. Fine momento pubblicità, ovviamente non pagata.

D'altra parte – così almeno risulta – non hanno preso un euro nemmeno Jul, 13 Block, Stavo o gli altri rapper made in France che, spostando equilibri ben più di quanto potrà farlo questo pezzullo, hanno pubblicizzato il gruppo e i suoi marchi nei video delle loro canzoni. Non ci avevo mai fatto caso pur essendo appassionato del suono che proviene da oltre i valichi alpini e da parecchio tempo a questa parte rappresenta la scena più vivace del rap mondiale e il secondo mercato hip hop del pianeta. Devo ringraziare la newsletter Made in France di Alessandro Ranieri, che ogni settimana racconta "storie, personaggi ed eventi all'interno del rap francese attuale e non" per avermi illuminato su un trend (estetico, ma anche socioculturale) che vige da parecchio nell'hip hop francese. E che potrebbe arrivare presto da noi, visto che c'è una generazione di artisti con relativo pubblico che guarda a Parigi e alle altre città del Paese come il canone di ogni cosa

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Per Ranieri "in tutto il suo percorso di nascita ed evoluzione, la scena rap francese ha sempre cercato di crearsi una propria identità, allontanandosi dal ‘modello americano’, ormai saturato ovunque. Non solo a livello musicale, ma soprattutto di vestiario". Bisogna risalire al 2015 quando nel video di En Y, Jul – marsigliese, di recente diventato nel 2023 il primo rapper francese a superare il miliardo di stream su Spotify – indossa un piumino Decathlon da 40 euro. Il video ha un tot di cliché del genere – i passamontagna, la gang, gli scooteroni, anche se mancano i palazzoni –, e sono in molti a notare il piumino. 

"Per artisti che diventano dei punti di riferimento nei quartieri di periferia, dove il senso di disagio e di emarginazione ritornano in maniera costante, anche indossare dei brand meno hype, ma che in qualche modo rappresentano quel contesto e sono più facili da comprare in termini di prezzo, contribuisce a creare forte identificazione tra le varie community. In quei contesti poveri economicamente e privo di grandi occasioni di riscatto sociale l’unica cosa con un valore da preservare è la propria collettività. Ed indossare quei marchi, abbinandoci il mezzo musicale del rap, che vanno in contro-tendenza al contesto scintillante e sempre più esclusivo dei brand di lusso, permette di farlo alla grande", scrive Ranieri.

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Insomma, avere addosso Quechua, Kalenji, Artengo, Kipsta o un altro dei 73 nomi che compongono la galassia dei brand di proprietà di questo gruppo leader nell'abbigliamento sportivo è una rivendicazione. Un segno di alterità che va persino oltre rispetto alle maglie del Psg, le Squalo e le tute d'allenamento della cosiddetta "generazione Maranza" (cui questo fenomeno, se tale lo si può considerare, è indubbiamente collegato). Un modo di dire al contempo "me ne fotto" e "so da dove vengo" che, dopo Jul, coinvolge i 13 Block che in Zidane, come ricorda Made in France, cantano “Toujours en Quechua, taille M Quechua, taille M Kipsta" (Sempre in Quechua, taglia M Quechua, taglia M Kipsta)". Per poi raggiungere il Brasile e il rapper Vinicious Souza, per cui, di fatto, vestire questi marchi significa "identità e riscatto sociale".

Sarà che sono ancora fomentato da Reign Supreme, serie sull'hip hop francese uscita di recente su Netflix, sarà che dopo l'annuncio del live (saltato) di Travis Scott a Giza mi sono andato a riguardare quello di tanti anni fa di fronte alle piramidi egiziane di Akhenaton, nome de plume di Philippe Fragione, fondatore gruppo seminale del conscious rap francese (anzi, marsigliese) IAM. Fatto sta che questa cosa dei rapper che si denudano (sì, la sto facendo più cristologica del dovuto) di giacche d'haute couture, catenoni, ciabatte di pelo mi ha gasato e non poco.

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Perché la società dell'immagine è uno scotto con cui ho imparato a convivere da un pezzo: dubito si tornerà indietro, non in tempi che mi sia consentito documentare. Nemmeno l'eterno citazionismo dei brand pare destinato a finire presto, d'altra parte, anche se molti lo associano alle ballate itpop, è una cosa che c'entra più con Andy Warhol che con Tommaso Paradiso. Ma, pur non scandalizzandomi più da un pezzo per brillocconi e outfit da decine di migliaia di euro, trovo molto figo che ci sia chi trova che la propria immagine sia più forte quanto meno sia esclusiva. Quando rappresenta un "noi" e non un "io" che ambisce al solito "all eyez on me".

Trovo affascinante che artisti – che musicalmente magari mi dicono poco, ma questo è tutt'altro discorso – che tutto potrebbero, decidano invece di ghigliottinare ogni wannabeismo e calarsi nella realtà. Dove la gente veste Kalenji, perché quando ha indosso un vero Fendi vuol dire che è caduto da un camion o che i genitori si sono inguaiati per comprarglielo. È la stessa cosa che tempo fa avevano portato avanti Speranza e Massimo Pericolo, con le loro tute Zeus o Givova, che nei weekend ai bar dei paesi di provincia sono totalmente egemoni. Ma anche, almeno in parte, quello che oggi fa gente come Paky o come Neima Ezza, i cui look sono inconfondibili rispetto a quelli dei loro coetani che abitano gli stessi "blocchi" e non hanno avuto la stessa fortuna.

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Non è la fase francescana dell'hip hop. Ci mancherebbe solo questa, considerato che di parodie là fuori ce ne sono abbastanza. Ma è un modo altro di fare la propria cosa, un altro tipo di status da sbloccare. Un modo, forse almeno in parte, di riconnettersi con le radici di un genere nato per le strade e in mezzo a una comunità, e che senza di essa non ha ragione d'essere. Ora il prossimo passo potrebbero essere gli smanicati Decathlon. Personalmente sono già pronto da un pezzo, potrebbe essere la prima volta in vita mia che mi vesto da rapper

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L'articolo Il futuro del rap italiano: tutti vestiti con la roba della Decathlon di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2023-08-01 15:53:00

COMMENTI (1)

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  • NoemiBolis 15 mesi fa Rispondi

    Ho quasi solo vestiti Decathlon e non ascolto rap e concordo completamente con la frase "potrebbe essere la prima volta in vita mia che mi vesto da rapper."