Chiagne ancora arriva come arrivano i pezzi di Liberato: anticipato solo da qualche storia Instagram misteriosa, droppata a sorpresa, titolo lapidario che subito rimanda alla malinconia speciale dei brani dell’artista napoletano, e che ritroviamo anche nel ritornello e nella produzione, lavorata insieme ad Ava e Mojobeatz. In realtà, è un contributo segnante su un pezzo che nasce da un altro artista di successo e che trova il suo senso nella partecipazione di un nome emergente. Parliamo di Ghali, che con questo singolo partenopeo anticipa il suo terzo album in studio, e di J Lord, giovane rapper della provincia napoletana, che è stato chiamato a bordo per dare vita a un “allineamento dei pianeti fra Baggio e Napoli”.
Per Liberato, il ritornello catchy di Chiagne ancora potrebbe essere l’occasione di assestare un buon colpo estivo dopo E te veng a piglià, che non aveva convinto tutti; ma il featuring tra i due rapper è la vera chicca e elemento d’interesse del nuovo singolo, distinguendosi nel mare di collaborazioni che spesso e volentieri sono accoppiamenti studiati con la calcolatrice per moltiplicare pubblici e ascolti su Spotify. Per come è realizzato e per come si presenta, ma anche per come ci racconta di due artisti diversi con percorsi diversissimi che però, ognuno a suo modo, rappresentano lo scontro tra la musica di oggi e quel feticcio chiamato “identità italiana”. Feticcio che, se mai è esistito realmente, adesso è frammentato in una miriade di biografie, esperienze ed identità peculiari, accomunate da diverse cose, distinte da altrettante.
In primis colpisce il lavoro dietro al brano, che sembra essere da un’altra parte rispetto ai featuring intercambiabili fatti con il copia e incolla. Lo stesso Ghali ha raccontato di aver lavorato con J Lord in maniera “artigianale e collaborativa”, incontrandosi dal vivo e limando il pezzo insieme e si sente: nella strofa del rapper napoletano ritorna e si inserisce Ghali, in un incrocio di voci dove è Lord a finire un verso pesante e significativo iniziato dal cantante milanese: “Ci aiutava la chiesa, ce purtavano ‘a spesa”. È molto tenera l’immagine che ne esce, quasi come se a dire una cosa delicata come questa ci volesse il supporto di una seconda voce.
In quello scambio è racchiuso un tema che aleggia in tutto il brano: quello delle affinità tra i due rapper con un profilo distinguibile all’interno della scena italiana. Entrambi sono accomunati da una vera storia di periferia e marginalità economico/sociale, a cui si aggiunge l'aspetto biografico non indifferente di essere ragazzi afroitaliani, un retaggio simile declinato in maniere diverse. Per Ghali significa essere nato e cresciuto a Milano da famiglia tunisina, per J Cole essere arrivato a Casoria dal Ghana da piccolo, per poi crescere con una famiglia d’adozione senza mai perdere il contatto con la propria famiglia biologica e la cultura africana. In entrambi i casi, significa essere e “sentirsi italiani”, concetti limitanti ma anche risposte semplici che purtroppo (o per fortuna, per dirla con Gaber?) a volte si devono dare ad domande complesse sull’appartenenza ed i legami con una cultura, un posto e le persone che lo abitano. Significa anche essere a metà tra due mondi: “un po’ italiano e un po’ tunisino” Ghali, J Lord con “almeno due famiglie di sangue” , quella italiana e quella ghanese, la comunità del suo quartiere.
Ci sono modi diversi anche di vivere questa identità e tradurla in musica: il rapper di Baggio ha esordito mescolando arabo ed italiano, mettendo a nudo i pregiudizi più gretti e stupidi dell’italiano medio verso gli stranieri, in pezzi ormai storici come Wily Wily. Un racconto che parte sempre dall’esperienza personale e non dallo slogan, ma che con Cara Italia sfonda la porta del pop mainstream, portando in radio l’esperienza dei cosiddetti italiani di seconda generazione, quelli che che la legge e spesso anche la società non riconoscono come tali. Volente o nolente, il brano viene riconosciuto come un inno dello ius soli e simboli di integrazione, Ghali viene incensato da personaggi Saviano e da Fazio, un certo mondo progressista, probabilmente anche in buona fede, cerca in lui un personaggio da contrapporre alla deriva razzista del Paese. Come un novello Ferretti, Ghali a diventare megafono non ci sta, è il filone più “politico” delle sue canzoni un po’ si inceppa.
Preso dalla necessità di elaborare il successo e dalle sue conseguenze, nel suo secondo album DNA Ghali ritorna sul tema delle proprie origini più sporadicamente, ad esempio in Jennifer, quando racconta della famiglia di una sua ex che non accettava il ragazzo arabo della figlia. In Flashback addirittura canta: “Intervistatori mi chiedono, Ius soli? Credo soltanto che siamo più soli”, rispondendo ai tentativi ingenui di tirarlo nell’arena della politica e rimarcando, invece, uno sguardo che forse è sempre stato più esistenziale.
Quasi a confermarci che il colore della pelle non può mai rappresentare un obbligo di attivismo e non assorbe mai l’intera identità di una persona, nei brani finora usciti di J Lord il tema dell’essere neri entra in maniera diversa dal primo Ghali o da altri rapper afroitaliani. Intanto perché, appunto, Lord non è solo un ragazzo di origini africane, ma un ragazzo della periferia napoletana di origine africane. Un concentrato di “diversità” e assi di oppressione che, come faceva notare qualcuno nei commenti ai suoi video su YouTube, potrebbe essere la kryptonite di qualsiasi leghista e fascista (e speriamo davvero che lo sia), ma soprattutto è l’identikit sfaccettato che fa da linfa per i testi del rapper. Barre che partono prima di tutto dai quartieri periferici di Napoli, in particolare quelli dell’area nordest, raccontati con le parole e lo stile del gangster ma con uno sguardo amaro sulle abbandono scolastico, sulle piazze di spaccio e sui morti troppo giovani.
C’è una volontà di riscatto popolare, con toni quasi messianici – “Si ije ‘ccà nun salvo ‘o popolo/dimmell chi ‘o facess?”, Freestyle 2020 – che parla la “voce d'o popolo” – 14 Freestyle (La coscienza) – e riguarda una popolazione fatta indifferentemente di guagliun black, bianchi, migranti. Forse perché vivere a Napoli – ce lo confessava lui stesso qualche tempo fa – significa vivere in una città dal DNA meticcio dove, soprattutto nei quartieri, l’esperienza di un ragazzo nero potrebbe essere diversa da quello di un suo coetaneo di altre zone d’Italia. Anche questa però è una generalizzazione da cui bisogna stare in guardia, altrimenti 13 freestyle (Il dolore) non ci parlerebbe di “mazzate pe' me fa accettà ca ero black” o del padre di una sua ragazza che la picchiava quando la vedeva con lui, quasi come come in quella Jennifer.
C’è poco da fare, in forme sottili o palesi il razzismo subito appartiene all’esperienza di qualsiasi persona di origine straniera in Italia, e la musica può essere una forma di esorcismo e di reazione. In J Lord troviamo proclami pacifici di antirazzismo (“bianc e ner simm ugual /’o saje contr ‘o razzism”, in Figli del passato) e anche risposte senza sconti: “chiammame "nigga", saje, te spacco 'o musso” (Freestyle 2020, e questa andrebbe fatta ascoltare a qualche rapper bianco). Il napoletano di origini africane che usa l’immaginario gangsta suggerisce un’idea di integrazione che per molti sarà sicuramente meno rassicurante di quella di Cara Italia, a partire dalla rivendicazione fortissima della cultura black afroamericana, che nasce dal ghetto e si esprime nell’hip-hop: i lowrider e i jeans baggy, 50 Cent, 2Pac e Dre, il durag in testa come le gang di LA.
La cultura afroamericana, attraverso l’hip hop, è arrivata a parlare in ogni periferia del mondo ed è naturale che a riconoscerci si siano prima di tutto i figli delle altre diaspore nere, quelle migrazioni nate anche loro dal colonialismo che portano ragazzi provenienti dai mille angoli di un continente enorme a ritrovarsi in una casa di un quartiere di Napoli. E ad essere celebrati da J. Lord – “Mammà ca cucеnava a tutt"e paesane dint a ‘na homе”, Sixteen – in una sorta di panafricanismo che in qualche modo guarda alla cultura rap afroamericana come ad un’appartenenza per tutti gli africani e gli afrodiscendenti, come in passato è stato già per il reggae. La black culture di J Lord sarà certamente una versione meticcia di quella a stelle e strisce, segno ulteriore che lungo quel lungo quel 41º parallelo che ha sempre collegato Napoli a New York e si allunga da Casoria a Compton, la cultura d’Italia sta crescendo e sta cambiando seguendo le storie dei ragazzi che abitano le sue strade. Sarà interessante vedere come Lord come declinerà questi temi continuando un percorso musicale che solo all’inizio.
L’ultima linea tra J Lord e Ghali è proprio quella che li trova agli opposti di uno spettro raccontato dalle strofe speculari di Chiagne ancora: Ghali ormai è una popstar, ha sempre “delle hit in cantiere” e può permettersi di sfottere gli outfit e le catene da poco degli altri rapper; J Lord è un ragazzo che adesso sta iniziando la sua scalata, con meno fama, ma con altrettanta fame, e anche con uno sguardo diverso sui temi e le difficoltà del suo quotidiano. Noi siamo sicuri che ce la farà, speriamo conservando il più possibile di questa urgenza e di questa realness. Magari gli darà una spinta questa canzone, che ha le potenzialità per diventare un tormentone malinconico di quest’estate e che intanto ha un piccolo merito, quello di averci dato uno screenshot di un Paese in cui la musica può tracciare linee tra Nord e Sud, centro e periferie, artisti pop e rapper emergenti, profili multietnici e forme di italianità che sfuggono alle definizioni più miopi.
---
L'articolo Ghali e J Lord: This is Italia di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2021-06-23 10:17:00
COMMENTI