Giorgio Poi: la leggerezza, sai, è come il vento

Il terzo album del cantautore, "Gommapiuma", è quello della maturità artistica. Pieno di cambi di tono ma meno inquieto dei precedenti, come sospeso per aria e trasportato dai flussi, in attesa che tutto trovi una forma. La nostra intervista

Giorgio Poi, foto di Guido Domenichelli
Giorgio Poi, foto di Guido Domenichelli

La gommapiuma non è morbida, ma si può stringere. Non è dura, ma ci si può sedere sopra. Se avessi studiato meglio fisica potrei citare qualche proprietà dei corpi solidi. Invece, mentre sono seduto su un parallelepipedo di gommapiuma, all’interno dell’omonimo negozio-laboratorio di Milano a un passo dalla circonvallazione, penso semplicemente che Giorgio Poi ha avuto un’ottima intuizione quando ha scelto questa parola come titolo del suo terzo album. Un disco che vive di una doppia anima lungo tutte le sue otto tracce. Un disco diverso dai due che l’hanno preceduto, anche perché nato in un periodo diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. 

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Smog, il tuo disco precedente, si apriva con Non mi piace viaggiare: direi che sei stato accontentato...

Effettivamente è così, ho avuto modo di ricredermi su quella questione (Ride, ndr). Mi è mancato anche viaggiare, spostarmi per fare cose. Non tanto la situazione più turistica che magari faccio poco di mio. Avere da fare in posti diversi ti porta magari anche a non vedere l'ora di tornare: "Sto in giro da due settimane e ora finalmente torno a casa". Se n'è andato anche il piacere del ritorno. Stare sempre fermo in un posto ha quel limite lì.

Tanti tuoi colleghi hanno avuto piani e tour cancellati, tu fai parte del 50% dei musicisti che stava entrando nella fase di scrittura, quindi ti è andata meglio, ma immagino che comunque non sia stato facile iniziare un nuovo disco barricato in casa.

La parte difficile è stata immaginare un mondo normale. Scrivere del presente era impossibile, perché non c'era un presente reale. Era talmente tutto in costante evoluzione... e sempre verso il peggio. Questa situazione però ha permesso di scavare veramente dentro se stessi, per cercare esperienze passate o per cercare di capire come ci si sentiva in quel momento.

Foto di Giulia Bersani
Foto di Giulia Bersani

Sei riuscito a sfruttare il momento, da questo punto di vista?

Sicuramente questo disco sarebbe stato diverso se non ci fosse stata questa situazione. Non so come sarebbe stato se fosse stato scritto in un mondo normale, però certamente ho scritto in maniera diversa. Mi sono calato molto più a fondo in quello che facevo, dubitando continuamente di tutto e per questo da un lato è stato sicuramente molto più faticoso rispetto al passato. Tornando alla tua domanda, non mi sono ancora dato una risposta: non so se è perché c'erano meno cose di cui parlare o perché volessi andare ancora più a fondo rispetto a quanto avevo fatto prima, ma cercavo di essere ancora più sincero, ancora più vero, nel senso proprio di credere in quello che veniva fuori, sia musicalmente che testualmente.

C'è qualcosa che hai buttato via perché non aveva senso rispetto a quello che stava succedendo?

Io ho iniziato a scrivere a inizio marzo 2020, proprio quando stava partendo tutto. Ho fatto particolarmente fatica nella prima parte, nel primo lockdown. Nonostante ciò, mi sono reso conto che tantissime idee che poi ho sviluppato in seguito sono nate proprio in quel momento lì. Mi ricordo che non mi piaceva quasi nulla, al punto che ho scritto tantissimo, cercando, scavando e poi, in un momento in cui ero più leggero, mi sono messo a riascoltare e dire: "Beh, ma era figa questa cosa, perché l'ho buttata?". L'avevo buttata perché in quel momento non ero disposto a capire e a sentirmi meglio ascoltando una cosa che avevo fatto.

Il disco io l'ho sentito molto aperto, molto positivo, soprattutto rispetto a Fa niente, che ha delle chitarre che sono inquietanti. La differenza è nettissima, anche se qualcuno magari si sarebbe aspettato qualcosa di più cupo, viste le circostanze in cui è nato Gommapiuma.

Probabilmente è successo per reazione. Soprattutto musicalmente ho cercato la leggerezza che mancava nella vita quotidiana e che da qualche parte avevo bisogno di trovare. Io l'ho trovata nella musica. Non penso sia un disco spensierato, ma ha delle cose leggere, però musicalmente forse il primo era più dark.

Parlavi di scrivere, buttare, ripescare: è così che lavori di solito? 

È in evoluzione, come tutto. Il primo disco l'avevo iniziato a scrivere pensando a un progetto da portare in giro da solo, una roba elettronica, a cui ho lavorato per qualche mese, prima di rendermi conto che non era quello che volevo fare. Poi dopo ci ho messo sette mesi a scrivere quelle canzoni e registrarle. Il secondo più o meno uguale, mentre questo è stato molto più faticoso come percorso. Non so se per il Covid, perché sono più grande io, perché era il mio terzo disco, perché ero chiuso in casa, non so bene per cosa, ma ci ho messo molto di più e ho buttato molto di più. Non ho mai buttato così tanto, quindi la mia sensazione è che sono riuscito ad arrivare un po' più lontano rispetto al passato o rispetto a come sarebbe stato se non avessi buttato niente e avessi tenuto tutto.

Il disco parte con un pezzo come Rococò, che ti tira subito dentro. Come scegli la prima traccia dell'album? Soprattutto in epoca Spotify non è cosa da poco...

Ma io considero sempre che il disco venga sempre ascoltato tutto... sicuramente sbagliando (ride, NdR) e che quello sia sempre il primo pezzo che uno ascolta, anche perché non posso fare diversamente, altrimenti dovrei mettere i singoli all'inizio. Io scelgo il pezzo più rappresentativo di quello che è il linguaggio di quel disco, che magari non è necessariamente la hit, ma descrive bene l'ambiente.

 

Foto di Giulia Bersani
Foto di Giulia Bersani

Rococò parla di regali, sei bravo a farli?

No, faccio spesso errori. Non mi organizzo in tempo, mi organizzo all'ultimo e quello che mi viene in mente e mi piacerebbe regalare non riesco a trovarlo. Quindi ripiego su cose di dubbia qualità e dubbio gusto.

Qual è il regalo più brutto che hai fatto?

Quello che è stato meno apprezzato, forse per quanto era noioso come regalo: una felpa su cui non c'era scritto niente, una felpa plain.

Andando avanti con il disco: I pomeriggi mi ha ricordato Vento d'estate di Gazzè e Fabi come andamento e anche perché pure in questo pezzo si parla di vento. Il vento è un tema che ricorre nel disco, ci avevi fatto caso?

Non ci ho fatto caso, ma il vento è un elemento che mi piace tantissimo. Sia come parola, come suona, sia come forza, come immagine che ha. Forse è una cosa che succede solo a me, ma a volte quando c'è vento forte e si va in giro per strada, c'è un'aria strana: succedono cose strane, ci sono rumori improvvisi, sembrano tutti pazzi, sembra che il vento porti con sé un umore dei posti e delle città, un umore molto particolare. Oppure il suono del vento nei film di Fellini, questo filtro che si apre, a me piace tantissimo. Ho questo rapporto con il vento, non so perché.

Invece il rapporto con Elisa com'è andato? Lei canta in Bloody Mary e secondo me il bello è che, se non sapessimo che è nel tuo disco, non si capirebbe se si tratti di un pezzo tuo in cui lei è ospite o viceversa. Com'è nato? 

L'idea era proprio di fare qualcosa che potesse cantare lei da sola, io da solo oppure insieme, da mettere nel suo disco o nel mio. Non si sapeva cosa avremmo fatto con questa cosa e alla fine abbiamo optato per questa formula qui: cantarlo insieme nel mio disco.

Cosa rappresenta Elisa per te e per la tua generazione di musicisti?

Elisa è un'artista che mi sembra di conoscere da sempre come ascoltatore, per lo meno da quando ero abbastanza piccolo da muovere i primi passi dentro un ascolto vagamente consapevole. La sua è una voce assolutamente familiare, è un modo familiare quello che lei ha di fare musica e questa è una cosa che mi mette a mio agio, mi fa sentire a casa.

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Gommapiuma è un pezzo strumentale e dall'inizio alla fine è accompagnato da un suono che va in loop: che suono è? 

Quelle sono delle campanelle di rame che avevo comprato diversi anni fa e avevo registrato nel periodo in cui lavoravo a quell'idea elettronica, di cui ti parlavo prima e che poi non ha mai preso forma. Le ho registrate a Berlino nel 2015.

Non butti niente proprio...

Beh di solito sì, in realtà era buttato, ma mi è capitato di risentire quelle cose che avevo fatto in quel periodo. Non mi sono piaciute, però c'erano dei suoni che invece mi stavano ancora simpatici e che ho riutilizzato in questo pezzo.

Questo pezzo ho provato a immaginarlo come colonna sonora di una scena drammatica e funziona, ma funziona anche come colonna sonora di qualcosa di liberatorio. Tu come lo inquadri?

Non te lo so dire neanche io, perché ha un'armonia che si muove moltissimo e cambia tonalità ogni due accordi. Ti porta sempre in un posto diverso e in qualche modo non è associabile né alla malinconia e alla tristezza, né alla felicità. È una cosa un po' sospesa, proprio perché cambia spesso tonalità.

Mi ha affascinato tanto come pezzo, anche perché ammetto di essere uno di quelli che skippa le tracce strumentali degli album, questa invece l'ho ascoltata diverse volte.

Io volevo fare proprio qualcosa che non venisse skippato, volevo fare proprio un pezzo, non il filler strumentale. Volevo fare qualcosa che per me fosse bello così com'era, anche senza parole.

È un po’ la stessa cosa che succede in Supermercato, dove il testo entra dopo oltre un minuto: non proprio la ricetta per la perfetta hit contemporanea.

Faccio quello che posso, faccio quello che mi piace e che mi andrebbe di ascoltare. Quest'anno ho ascoltato tanto Bill Evans e mi piaceva fare una lunga intro di pianoforte che fosse a metà strada tra un certo tipo di jazz e una cosa più dritta e cantautorale. Quell'introduzione non è propriamente jazz, però ha quel sapore.

Ho apprezzato molto l'ambientazione del supermercato come luogo in cui senti fortissimo la fine di una storia d'amore.

Soprattutto se si viveva insieme e si faceva la spesa insieme. È il posto che fa più male, perché è la vita quotidiana che viene fuori in tutta la sua brutalità e solitudine nel momento in cui ci si lascia. È emblematico.

Prima parlavi di sospensione, che è un po' il sentimento che aleggia sul disco: c'è un po' di fatalismo qua e là (soprattutto ne I pomeriggi), ma poi il disco si chiude in modo positivo. In che modo riesci a mescolare questi due atteggiamenti, che in apparenza dovrebbero essere all'opposto?

No, in realtà non sono all'opposto. Uno può essere fatalista e dire: "Quel che sarà, sarà e sarà comunque l'unica cosa che può succedere e quindi è il corso che devono fare le cose". Sperando sempre che vada tutto bene. Ma poi alla fine, alla fine-fine-fine, non va mai tutto bene, perché non c'è una fine reale delle cose. Tutto quanto è in evoluzione. La fine-fine-fine-fine la sappiamo già: finisce male, il protagonista muore.

Foto Giulia Bersani
Foto Giulia Bersani

Che poi è un po' il Fa niente del primo disco, come mentalità.

Un po' è così. Che devi fare? Alcune cose vanno bene, altre vanno meno bene, poi tutto riuscirà a trovare una sua forma, per quanto sbilenca, imperfetta, storta.

Da fatalista-ottimista, come vedi i prossimi mesi per quanto riguarda la situazione della musica italiana? Il rapporto con il pubblico è rimasto saldo o qualcosa si è interrotto in questi due anni?

Secondo me la voglia e la necessità di ascoltare qualcosa dal vivo e di vederlo succedere davanti ai tuoi occhi è una spinta che non si può esaurire, perché nel momento in cui ti piace ascoltare musica, la vuoi vedere davanti ai tuoi occhi. O almeno questo è quello che porta me a vedere un concerto, ma immagino sia così per tutti. Vorrei assistere al momento esatto in cui quella cosa viene fatta, è come assistere a un prodigio, a un gioco di prestigio. È una magia che prende forma davanti e te e questa cosa non può evaporare. È uno slancio che avremo sempre e che il pubblico avrà sempre.

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L'articolo Giorgio Poi: la leggerezza, sai, è come il vento di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2021-12-03 09:14:00

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