Sul mio tavolo c'è un vinile di Tim Timebomb. È 7'', che il frontman dei Rancid ha voluto regalare alla Wild Honey, etichetta punk rock di Franz Barcella, al fine di raccogliere fondi per l'ospedale papa Giovanni XXIII. Lo sapete tutti: Bergamo è la città simbolo del Coronavirus, raccontata in maniera tragicamente iconica dalla colonna di mezzi dell'esercito che porta via le bare in attesa di sepoltura. Il fatto che una delle leggende della musica mondiale decida di impegnarsi in solidarietà per la città è solo uno dei segnali della particolare energia orobica. Bergamo sarà pur divisa in due, alta e bassa, ma qui tutti sembrano uniti e compatti nel sentirsi parte di una cosa sola.
Tanti anni dopo i Verdena, che pure sono di Albino, ci sono nuove realtà musicali che hanno conquistato il palcoscenico nazionale, come i Pinguini Tattici Nucleari – praticamente la nemesi dei fratelli Ferrari –, o che sono addirittura divenuti culto nell'underground elettronico internazionale, come Gabber Eleganza e il suo brand Never Sleep. C'è un aeroporto che sta diventando il più importante del nord Italia, Orio al Serio. C'è un sindaco dall'importante passato televisivo e manageriale, Giorgio Gori, che ha voluto imprimere la sua firma su una idea di rinnovamento urbano. C'è una squadra di calcio, l'Atalanta, che oltre ad essere una fede indiscutibile – la Dea – è oggi un caso sportivo mondiale.
E poi c'è questo libro: Giugno. Un romanzo di formazione che parla di petardi e di oratorio, d'amore e di confusione adolescenziale. Pieno di riferimenti musicali, soprattutto alla trap italiana di Tedua, Rkomi e Psicologi. Scritto molto bene, con i personaggi che sembrano accendersi in 3D mentre lo leggi: la 24/129 gang che diventa la tua family e senti il vento fra i capelli delle scorribande in motorino. La sensazione di sfiga che ti si permea addosso quando il Don aizza i giovani del campo scuola estivo. E quel protagonista, Domenico, che ti cresce dentro mentre lo vedi crescere, caduta dopo caduta, errore dopo errore, scoperta dopo scoperta.
Decido di incontrare gli autori a Longuelo – l'accento sulla prima o – dove il romanzo è ambientato. Bar, chiese brutaliste e sedi di associazioni; molti condomini e molte belle ville, i viali con gli alberi, le macchine parcheggiate ordinate. Un posto normalissimo che diventa speciale grazie alla prosa viva e vivida e il linguaggio super fresh di questi due ragazzi: "Longuelo era il centro del mondo, e lo skate park era il centro di Longuelo". Chiacchieriamo camminando. Incontriamo sui muri la scritta "Buonismo = Ipocrisia. Gori Poser" che secondo me dice molto del tipo di ragazzi che puoi incontrare in questo posto.
Paolo Bontempo e Gianluca Dario Rota mi accolgono in braghe corte. Paolo, detto Bonti, ha il marsupio a tracolla e i capelli lunghi, chiusi in un laccio da calciatore dei duemila, a coprire gli occhi azzurri. Gianluca Dario porta gli occhiali tondi e si muove composto e gentile. Il bergamasco e il brianzolo. L'ex animatore e l'ex catechista. Sono assortiti malissimo, ma è evidente che il loro sia un partnerariato in crime fortissimo. È come quando ti mettono in banco con uno a scuola a cui non avresti neanche rivolto la parola e finisce per diventare il tuo migliore amico.
Non a caso, la loro collaborazione è nata sui banchi della Scuola di Cinema, a Milano. "Giugno potevo scriverlo solo con Gianluca. Tendiamo ad avere due personalità molto specifiche", dice Paolo. "Io sono più istintivo. Gianluca descrive bene le cose, tipo uno scrittore russo". "Offesa pesante", scherza Gianluca. Hanno convinto la casa editrice Sperling & Kupfer all'evento Milano Pitch, quando Giugno era solo un progetto di film. Bonti sale sul palco con il cappellino dell'Atalanta e, nonostante questo, la presentazione spacca. "Siamo stati bombardati di email", racconta, "alla fine abbiamo scelto Sperling perché non volevamo essere messi nella categoria ragazzi, ci hanno lasciato libertà e ci hanno dimostrato anche economicamente di crederci".
Perché ambientare un romanzo a Longuelo?
PB: È il mio quartiere. Il primo embrione della storia era nato da una mia idea: un ragazzino che finiva al CRE (Centro Ricreativo Estivo, ndr) controvoglia. Nella mia testa non poteva che essere quello di Longuelo, che ho vissuto da bambino e animatore. Ho raccontato a Gianluca che cosa avevo in testa. Parlavamo genericamente di "quartiere", ma ci siamo resi conti che usare quella parola duemila volte nel libro non sarebbe stato ok. Visto che Longuelo è una parola bella e strana, abbiamo detto: "va be', dai, chiamiamolo così".
Siete entrambi di Longuelo?
GDR: No, io sono di Concorezzo, una cittadina di 15000 abitanti vicino Monza. Non è collina, è la Brianza industrializzata. Tante cose nella dimensione di comunità tornavano. Quando scrivevo, mi immaginavo il mio oratorio e non quello di Longuelo che non avevo in realtà mai visto.
Perché ambientare un romanzo in un oratorio?
PB: È un'esperienza molto comune per me e i miei amici. I campetti stanno negli oratori, ci vai per quello, non pensi a Gesù. È il primo luogo di aggregazione vero che un ragazzo conosce. È il momento in cui esci dal tuo palazzo e incontri quelli dell'altra classe, i bulli, l'amore. Io sono rimasto in adolescenza anche per questioni amorose. Sono andato via solo a diciotto anni.
GDR: Io l'ho frequentato meno. Da bambino lo odiavo proprio. Non perché fossi un teppista, ma ero più sfigato di quelli che lo frequentavano. L'unica cosa lontanamente autobiografica che ho messo nel romanzo è il disagio di Domenico quando ci entra per la prima volta. Però poi con il passare degli anni, perché trascinato dagli amici e forse diventato meno sociopatico io, ho iniziato a frequentarlo.
Arrivamo allo skate park: chiuso. Gianluca non vedrà il luogo culto del suo romanzo neanche questa volta. Andiamo verso il Bar Bazzini.
Perché l'oratorio è percepito in maniera così sfigata?
PB: Perché a un certo punto, finita l'aggregazione, scopri che ci sono altri posti e altri modi di stare insieme. Dove non cercano di tenerti con un sacco di buone intenzioni, tipo "buonismo = ipocrisia". Non ti servono più a quell'età.
GDR: La mia esperienza è stata diversa. Ci sono arrivato finita l'adolescenza. Ho fatto il catechista per qualche anno, scontrandomi con una spaccatura molto forte. Vengo da un paese in cui la comunità cattolica è fortissima, il paese della Brianza con il maggior numero di credenti... non bigotto, ma sicuramente il tema è molto sentito.
Il mio rapporto con la Chiesa è stato conflittuale in fase adolescenziale: ho smesso di andarci polemicamente. Per voi invece? Perché in Italia si deve per forza passare dall'imbuto della Chiesa?
PB: CRE e oratorio sono due cose diverse, splittate, divise. Io non sono mai stato credente, non volevo neanche fare la Cresima, non andavo a Messa. Ma mi piaceva l'oratorio e mi è spiaciuto andarmene. Nella mia testa i giorni passati al CRE sono una mitologia. Ho conosciuto persone importanti, i migliori amici. Sembra banale dirlo, ma a me piaceva fare da animatore ai ragazzi.
Questa è una delle cose che mi hanno da semre infastidito: anche se non vai a messa, comunque vai all'oratorio. In qualche maniera sei sempre "uno di noi". La Chiesa è così ramificata nella nostra società da non poterne prescindere.
GDR: Tema tosto. Come dici tu, sembra che in Italia non ci possa essere alternativa. Fa comunque parte della nostra vita. Io vengo da una famiglia cattolica: sempre stato credente, sempre andato a messa fin da bambino. Però vedo anche persone che conosco che vengono da famiglie non credenti: inevitabile fare i conti con la Chiesa. Chiunque tu sia. È una realtà non solo religiosa ma sociale. È un tema trattato poco, con pudore e vergogna. Io stesso faccio fatica, ho sempre la paura di sbagliare.
PB: Se penso a Longuelo, l'unico elemento di identità è l'oratorio, nel bene e nel male (indica dei ragazzi seduti al bar, ndr) Io questi ragazzi li ho conosciuti perché ero il loro animatore. Se non ci fosse stato, non ci sarebbe nulla che ci avrebbe unito.
A parte l'Atalanta, forse.
PB: No. L'oratorio è più importante. Ora qui non c'è più il ritrovo degli Ultras come una volta (fino a qualche anno prima qui c'era il Covo degli atalantini, ndr). La piazza non è vissuta come centro di aggregazione. Nessuno qui si vergogna di aver fatto il CRE, anche se la sera va in discoteca.
Per voi è normale citare la trap mentre parlate dell'oratorio, come si conciliano questi due mondi?
GDR: Questa è una cosa normalissima da vivere, difficile da mettere a tema come fosse un problema. La realtà dell'oratorio nei quartieri e nelle città non crea scandalo, è condivisa come vissuto. Andare all'oratorio e ascoltare Tedua o i Nirvana è assolutamente normale. Diventa più difficile se ti chiedono di parlarne. All'Università a Milano mi veniva chiesto di rendere conto di essere credente: lì diventa difficile. Siccome in Italia la realtà cattolica è così capillare c'è molto astio da parte di tante persone, proprio in virtù di quel rigurgito di cui parlavi. In quegli anni mi veniva chiesto di rendere conto di essere cattolico e mi veniva chiesto con astio. Nel momento in cui se ne discute e si vuole tirare fuori la verità diventa un casino.
La Chiesa è tante cose, dall'oratorio a CL. Inevitabile sentirne la pressione addosso.
GDR: Non puoi parlarne a livello teorico senza mettere assieme tanti livelli. Non ho esperienza e autorità per dare un giudizio. In Giugno non volevamo farlo.
PB: Attorno all'oratorio girano persone umili, persone che non avevano altro intento che volerti bene fino quasi a darti fastidio. Spesso quelle stesse persone erano in polemica con il potere, con CL ad esempio.
C'è nel libro Aco, un personaggio afroitaliano, e si usa più volte la n-word. Non avete mai pensato che fosse pericoloso o sbagliato usarla?
GDR: Mi sono interrogato molto su questa cosa, soprattutto durante il periodo Black Lives Matter. Un podcaster italiano di seconda generazione ha detto che usare la n-word sdrammatizzando non ti rende meno razzista. Questa cosa mi ha fatto pensare. Noi riportiamo la realtà che vediamo senza imporre un giudizio. Vogliamo dire che nella vita reale il confine fra giusto e sbagliato è labile, e difficile da comprendere soprattutto per un ragazzino. Il linguaggio usato nel libro racconta di una certa leggerezza nell'affrontare un problema che non è concepito come un problema. Per loro Aco non è diverso. Possono sfottere me per la r moscia, lui perché è nero. Nella realtà invece questa cosa non si può fare con questa leggerezza.
Avete scritto il libro prima dell'uccisione di George Floyd e delle proteste mondiali che ne sono scaturite. Se doveste farlo uscire oggi ci ripensereste?
PB: Alla luce di quel che è successo, c'avrei pensato di più e forse avrei cambiato anche il linguaggio tossico che usano durante tutto il libro. Oggi sento un po' di responsabilità in più: d'improvviso sei pubblicato nelle librerie d'Italia e rifletti su ciò che uno potrebbe pensare di ciò che hai scritto.
Come ci si sente a essere scrittori?
GDR: Scrivere un romanzo era uno dei miei più grandi desideri, ora che è successo non mi ha cambiato la vita. Hai scritto un libro, non è che la gente ti riconosce per strada, per fortuna che non è così anzi. Boh. Sono contento che tutti i nostri amici siano contenti, sono contento di poterne parlare. Mi rende felice sentire certe domande come ci hai fatto oggi, perché vuol dire che abbiamo suscitato riflessioni su temi importanti come crescita e Chiesa. Pensare che qualcosa che ho fatto io con tutte le sue imperfezioni – non penso di aver scritto il romanzo della vita – abbia sortito un effetto positivo su qualcuno mi emoziona. L'altra grande emozione è di leggere lettere di gente che non conosci che ci dicono di aver pianto dopo aver letto il libro.
PB: Quando mi danno dello scrittore mi spavento. Io vorrei essere sempre quello che va al campetto coi pantaloncini, vorrei rimanerlo sempre. Giugno sarà probabilmente la cosa più irresponsabile che avremo mai scritto.
Chi è più simile a Domenico fra voi due?
PB: Io a dodici anni sparavo i petardi con mio cugino, con una nostra etica però: lontano dalle case e dalle macchine. In più sono quello che pensa troppo, come Domenico.
GDR: Io mi sento come lui a dodici anni, quando non frequentavo le altre persone perché troppo concentrato a pensare a come dovessi relazionarmi a loro. Ora sono cresciuto, cambiato.
Ecco, se c'è una cosa che ho trovato strana è che Domenico, 12 anni, ascolti una ricercatissima playlist di lo-fi hip hop. Ce ne preparate una da condividere con tutti?
GDR: Il libro è pieno di inside joke, questo era uno di quelli.
PB: Speravo che nessuno se ne accorgesse... ci hai beccati. Ok, te la mando.
"Rimani fedele a tutto ciò che ti fa dire porcozzio" è il motto del libro. Cos'è che vi fa dire "porcozzio"?
GDR: Quelle cose talmente grandi e belle che ti fanno paura, o talmente paurose che diventano belle. Quando Domenico esce per la prima volta di casa, vede il suo quartiere, gli fa schifo ma è bellissimo e dice: "porcozzio". Una roba talmente bella che ti fa imprecare.
PB: La sensazione che hai, quando sei ragazzino, di guardare i più grandi e sentire che loro non lo stanno più dicendo. La paura di non dirlo più, e quindi la speranza di riuscire a dire "porcozzio" anche crescendo. Scrivere un libro, forse, è correre quel rischio.
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L'articolo "Giugno": il romanzo di formazione italiano passa ancora dall'oratorio di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2020-07-13 12:26:00
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