Mentre i Magazzini Generali si riempiono ancora di più di quanto non siano già pieni - il sold out è già stato annunciato da un po' - mi guardo intorno e vedo un sacco di gente "normale". La loro normalità sta proprio nel modo di essere, nel modo di stare. Non sembra di star aspettando l'inizio di un concerto, non c'è quella tensione emozionata che precede l'ingresso sul palco della propria band preferita.
Tutta questa gente, che parla normalmente, a voce molto alta, e occupa la sala a forma di tunnel della discoteca di Milano, è come ignara, e di buon umore, canta Battiato, in alta rotazione in attesa che lo show inizi. L'aria è già stata scaldata da Teseghella, ma è poco dopo le nove che l'eccitazione caciarona si trasforma in un boato, Giuse The Lizia e i suoi due compagni di viaggio sono saliti sul palco, e io mi fido perché data la calca il palco si intravede soltanto.
Giuse The Lizia, la faccia di chi vorrebbe essere un bad boy, la voce consumata nonostante i vent'anni da poco passati, la scrittura pulita all'inverosimile. Quel cantante che è facilissimo detestare, che è facilissimo relegare nel cantautorato inconsistente cantato in corsivo, ma che ci mette trenta secondi di live a mettere a tacere i brontoloni come me.
Basta l'attacco di Radical e i mille intorno a me iniziano a cantare con una foga commovente, ogni singola parola, per non fermarsi mai. Non prendersi bene con loro è davvero difficile, e questa "faccia da 2001" inizia a convincere anche me, inizia a toccarmi da qualche parte.
La scaletta scorre velocissima, Erba, Into Street, Riprova domani, Giuse è senza dubbio gasato, lo ripete più volte, il sold out milanese non è una cosa che si vive tutti i giorni. Ma mano a mano che i minuti passano mi rendo conto di quanto canti con gusto, di quanto senta le parole che snocciola, di quanto sia chiaro che lui è la versione originale di tante copie brutte e sbiadite di urban pop che intasano le playlist di Spotify, e ci sarà un motivo se le copie non sono mai paragonabili all'originale.
Senza aver ancora capito quali siano gli ingredienti base dell'urban Giuse canta i vent'anni con tutta l'ingenuità necessaria, canta 505 degli Arctic Monkeys – quando il pezzo usciva lui iniziava le elementari – come intro per Il brutto del mondo, ma allo stesso tempo tiene il palco con una consapevolezza che non si sa bene da dove arrivi.
Le parole sono pochissime, e la musica tanta, un'ora e venti abbondante compreso il bis della canzone di apertura. E questo ha un grande significato, perché la voglia di suonare e raccontarsi, nelle ballad come negli uptempo, o in quel "soft funk" che arriva dritto al cuore di tutti proprio per quel suo essere semplificato e genuinamente scarno, è il motore di un ragazzo che due anni fa si presentava da solo col suo chitarrino a strimpellare Hypsteria dei Cani al MI MANCHI, e che un passo alla volta ha consumato le tappe, senza bruciarle e bruciarsi.
Senza fare particolarmente rumore Giuse The Lizia ha fatto capolino da più parti, pure da finalista di Sanremo Giovani, e qualcosa mi dice che in poco tempo lo vedremo davvero su quel certo palcoscenico ligure, ma non si vuole far la gufata a nessuno.
Mentre esco dai Magazzini Generali sento lo sbalzo termico, fuori è freddo, mentre dentro il calore del pubblico non era solo emotivo, ma veniva dal movimento, dal pogo invocato da Giuse, dalle voci martellanti della gente durante Boy, don't cry, canzone cantata a duecento all'ora, ma dove ogni sillaba è strillata verso il soffitto in un misto di amore e disperazione. Giuse The Lizia è diventato grande, e lo ha fatto come bisogna farlo in questi tempi assurdi: mangiandosi i palchi.
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L'articolo Giuse The Lizia non aveva fretta eppure ha fatto in fretta di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2023-10-20 12:29:00
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