"Hanno ucciso l'uomo ragno": finalmente la mitologia '90 che ci meritiamo

La serie Sky sugli 883 non è solo un inno alla band più importante degli anni '90, un trattato sulla provincia, la nostaglia e un piccolo mondo che non c'è più. È un tentativo di togliere da tutto questo la patina appiccicosa dell'eterno revival e portarlo in un'altra dimensione. Riuscitissimo

Frame da "Hanno ucciso l'uomo ragno"
Frame da "Hanno ucciso l'uomo ragno"

Se considerate che quando mi chiedono i miei film preferiti, tuttora non ci penso due volte a indicare Jolly Blue - musicarello fuori tempo massimo del 1998 che celebra le canzoni degli 883 e la vertiginosità dalle gambe di Alessia Merz (che vuole la leggenda sia stata preferita a una giovanissima Angelina Jolie) -, potete facilmente immaginare l'entusiasmo adolescenziale con cui mi sono avvicinato all'uscita di Hanno ucciso l'uomo ragno - La leggendaria storia degli 883, serie in otto puntate sulla band pavese che trovate dall'11 ottobre su Sky e in streaming su Now. Non ci proverò nemmeno a fingere una qualsivoglia forma di professionalità, con Max Pezzali di mezzo proprio non mi riesce. 

A questo si aggiunga il fatto che apprezzo moltissimo il lavoro di Sidney Sibilia, salernitano classe 1981, esponente di spicco di una generazione di registi che hanno cambiato immaginario e prospettive del cinema italiano. Per il creatore di Smetto quando voglio e del grandioso Mixed by Erry la storia di Pezzali e degli 883 mi è parsa sin dall'inizio perfetta. Non ci sarebbe molto altro da aggiungere, se non invidiare tutti coloro che non hanno ancora visto la serie. Eppure mi prenderò ugualmente la briga di raccontarvela un pochino, nel limite del buon senso antispoiler, e soprattutto di provare a spiegare perché questa serie è qualcosa di prezioso e destinato a rimanere. Per lo meno, per me sicuramente.

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Un po' di info, che male mica fanno. La serie, in otto puntate, è una produzione Sky Studios e Groenlandia, andrà in onda tutti i venerdì in prima serata. I protagonisti sono due ragazzi molto giovani: Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli (Il filo invisibile, Gli sdraiati) nei panni, rispettivamente, di Max Pezzali e Mauro Repetto. Sono davvero bravissimi, così come superlativo è il lavoro di casting che è stato fatto (e pure quello di trucco). Sibilia aveva fin qua lavorato con personaggi sconosciuti (o quasi) o inventati, aver a che fare con due icone ben piantate nella coscienza collettiva (per lo meno quello generazionale, ma ci arriviamo) è però tutto un altro sport. E forse rappresentava il maggiore livello di difficoltà di questa produzione, superato alla grande soprattutto grazie all'abilita di Nuzzolo. Che parla (dall'inflessione ai tempi, ancora prima che lo slang: bravi pure gli sceneggiatori) come Pezzali, si muove con le sue stesse mosse, trasmette il suo stesso disagio esistenziale. 

La serie è ambientata a Pavia, cui è bastato aggiungere un po' di effetto nebbia e qualche auto d'epoca per sembrare ancora quella degli anni '80 (la città è assolutamente centrale nella fiction, anche se ci sono scene girate a Roma e in altri posti). Siamo tra la fine di quel decennio e i primi '90, Max è appena stato bocciato a scuola e si sente tutte le sfighe del mondo addosso. In effetti ne ha parecchie. Si invaghisce del punk, si sente diverso ma in una città in cui non c'è davvero nulla a cui ribellarsi. La ripetizione del quinto anno è un colpo ad effetto del destino, che gli offre come compagno di banco un capellone allucinato e apparentemente molto diverso da lui, Mauro Repetto. A separarli soprattutto l'approccio alla vita, irrimediabilmente entusiasta, energetico e sognatore quest'ultimo, disilluso al limite del cinismo la futura popstar.

Eppure "tutto va come deve andare" (poi la pianto con le citazioni, anche se avrei la possibilità di andare avanti all'infinito) e avviene quello che tutti sanno. L'incontro con Jovanotti e Cecchetto (i personaggi più macchiettistici, ma d'altra parte lo sono anche nella realtà), prima ancora quello con Maria De Filippi (piccola ma lodevole forzatura storica della prima puntata), l'esordio in inglese con I Pop, le serate in pizzeria e la tv, il passaggio all'italiano per la volontà di smettere di provare a essere qualcun altro, la genesi di Non me la menare e così via fino alle hit che ancora oggi riempiono i karaoke di tutta Italia e al trionfo al Festivalbar. 

Basterebbe e avanzerebbe per un fan degli 883, che sono tanti come il recente tour di Max sta dimostrando con numeriche semplicemente spaventose. Un "campo largo" di appassionati che forse nessun altro gruppo in Italia può vantare, con uno zoccolo duro di 35-45enne normies, certo, ma che si propaga fino ai punk (ne conosco e più di uno) e i "centro-socialari", che va dai commessi agli accademici (leggere La ricreazione è finita di Dario Ferrari per credere) e che sa pure raggiungere nuove generazioni, in una trasmissione tra padri e figli che più di un ragazzo in età scolare mi ha raccontato. 

Ma la serie, a cui Pezzali ha collaborato e a cui ha dato il benestare, fa ben di più, in pieno stile Sibilia. Che dentro alla storia di Max e Mauro è riuscito a mettere quella di tutti noi. A farne una storia collettiva, il romanzo di formazione pop di una generazione. Come d'altra parta è stata realmente, quel loro aver trovato le parole per tanti (ex) ragazzi e ragazze. Che non pensavano che le loro vicende, i loro insuccessi, le loro menate e persino il loro modo di esprimersi potessero finire in una canzone.

C'entra la provincia, questo luogo dell'anima dove vigono dinamiche e regole sempre uguali da Cogne a Soverato. Nella serie tutto questo viene fuori alla grande, e anche se libri, film, serie su questa cosa qua ce ne sono stati a milioni, per noi provinciali l'idea che per una volta i protagonisti siamo "noi", mica Roma, Milano o NY è soave. Ma mica basta. 

C'entra la nostalgia, certo. Avevamo vent'anni, sognavamo, vivevamo più che potevamo. C'entrano i Ciao a 35 all'ora, i puntelli sotto casa prima di WhatsApp, le interurbane, le indicazioni per strada che sistematicamente ti portano a fanculo (ok, ci sono ricascato), quell'idea che il successo lo si possa inseguire ciascuno a modo proprio, che alla fine vinca il talento pure quando è nascosto bene, che ci sia un Cecchetto per ciascuno di noi e basti trovarlo. Ma non è la nostaglia appiccicosa delle feste a tema in discoteca, di un'eterna rievocazione musicale che non aggiunge nulla all'originale, di una moda che ricicla sempre sé stessa.

È qualcosa che aggiunge e puntualizza, dà forma e manifestazione, grazie alla bravura del regista e del suo team. Qualcosa che storicizza, che mette a fuoco quello che è stato e che ha contato molto per un sacco di persone, dandogli una nuova e divertentissima veste. Qualcosa di cui avevamo bisogno noi che abbiamo sempre invidiato gli anni '60 e poi i '70 e poi persino gli '80 (guarda un po' come stiamo messi) e invece la nostra mitologia l'abbiamo avuta. Ora che siamo cresciuti è bello sapere che qualcuno abbia trovato il modo giusto per restituircela. 

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L'articolo "Hanno ucciso l'uomo ragno": finalmente la mitologia '90 che ci meritiamo di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-10-10 15:46:00

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