Nel 2024 come si fa a riconoscere un grande disco rap? Cosa deve avere l'hip-hop contemporaneo per sfuggire dallo spettro dell'auto-citazionismo, della parodia involontaria, della noia e della saturazione? Ce lo spiega per filo e per segno Kid Yugi, classe 2001, from Massafra (TA), che oggi ha pubblicato il suo nuovo disco - il suo secondo, a cui si aggiunge l'ep Quarto di Bue in collaborazione con Night Skinny, scusate se è poco per un quasi ventitreenne -, con un titolo spaventoso, barocco, kitch - scusa Nanni -, nella sua accezione migliore: I nomi del diavolo.
23 anni, per l'appunto. Anche se facciamo fatica a crederci questa è l'età di Francesco Stasi, nome d'arte di Kid Yugi. E non staremo a scomodare strane definizioni come enfant prodige e simili. Perché qui di enfant c'è davvero poco, ma di prodigioso tanto. Se già avevamo notato il suo fuoco bruciare lo scorso anno, inserendo Massafghanistan nella nostra top 50 di singoli del 2023, la breve carriera del rapper tarantino fa già presagire grandi cose, perché il suo singolo d'esordio, Sturm un drang, era un fulmine nel mondo post Covid, perché la sua strofa al fianco di Salmo e Noyz in CVLTera una bomba vera, senza sapori di reverenza nei confronti dei due giganti che gli stavano accanto. I perché potrebbero andare avanti a lungo, ma torniamo a noi.
Prima di tutto il grande rapper contemporaneo è quello che valorizza al meglio gli ospiti con cui collabora (visto che da questa pratica del feat. pare sia davvero difficile sfuggire), e in questo disco le otto voci notevoli con cui Kid Yugi si accompagna riescono a brillare tutte in modo diverse, su tutti Artie5ive, rivitalizzato dalla dimensione cruda dell'hip-hop, un Ernia sempre più elegante e chirurgico, e Geolier, che è ormai noioso continuare a definire fuoriclasse, ma questo è. Il resto della cumpa non eccelle ma fa bene i compiti, Papa V, Noyz Narcos, Simba La Rue, Tony Boy, uno Sfera Ebbasta a sorpresa e Tedua, che ormai sta annusando la possibilità di approdare quasi del tutto al pop, e che in Eva gioca il ruolo del cantante vero e proprio - pur non cantando -, portando atmosfere melodiche, e sobbarcandosi il lato emotivo della vera traccia d'amore del disco.
Un grande disco rap ha bisogno di un pezzo come Eva, commovente e severo allo stesso tempo, ma anche di un pezzo come Lilith, una filastrocca più fredda e meno imprevedibile, fatta per essere cantata a memoria dopo una manciata di ascolti. E proprio ora, che su Netflix - e sui social - sentiamo parlare di essere real, sentiamo i mentori del rap crescere la "wannabe futura stella del game" in Nuova Scena, ecco che Kid Yugi chiede silenzio e spiega come fare anche questo. Il rap non ha bisogno di dire ogni tre barre di essere real, altrimenti c'è un problema. La cosiddetta realness va fatta scorrere tra le parole, nelle pause, nei respiri, nella foga.
I nomi del diavolo è un lungo flusso di foga che fuoriesce senza sovrastrutture dalla bocca di un piccolo campione in ascesa, uno che si fa notare per talento e originalità in un contesto in cui ormai siamo assuefatti alla copia della copia. Barre imprevedibili, ricchissime, fatte per sorprendere ma che allo stesso tempo vengono chiuse con asciuttezza, senza ricercare il virtuosismo o il colpo di teatro. Quattordici tracce, o meglio cazzotti in faccia, quattordici capitoli di un concept sul tema libero del diavolo, senza alcun vincolo particolare, se non la necessità di declinare questa figura come si può. Un Maestro e Margherita per stomaci forti, dove l'estremità della nostra penisola soi fa fredda come la Russia di Bulgakov e i riferimenti a Gesù rimangono una costante.
Il ricorso demoniaco più inquietante del disco di Kid Yugi è la stessa città di Taranto, casa pericolosa, armata e dall'aria cancerogena. A differenza di molti "rapperini" fatti con lo stampino, il luogo d'origine non è una terra beata di micro-criminalità idealizzata, tutt'altro. Il Salento di Yugi è quello dell'Ilva, quello dei porti "Come Pearl Harbor". C'è pochissimo sole, un mare lurido, e la deflagrazione dell'allegrissima musica salentina: Ilva, accompagnata dalla voce di Fido Guido (leggenda jamaican style del territorio), è la cartolina della zona di cui nessuno vuol essere il king. Come già accadeva in Massafghanistan parlare di violenza, di droga, di mancanza d'amore ha i suoi effetti, non è un gioco.
Ultimo ma non ultimo, il grande disco rap è quello che lavora alla creazione di un immaginario, personale e collettivo, ma che non vede la voce narrante schiacciarsi ad adorare il mondo che canta. Kid Yugi odia, Kid Yugi scherza col fuoco e non invita gli altri a farlo, crea la rima baciata Donbass/Hamas, inserisce scaglie atroci di contemporaneità nei suoi pezzi e poi si fa beffe di Achille Lauro in modo non tanto esplicito, usa la T-word come un macigno, fa tutto in modo memorabile. Si muove su una serie di produzioni cattivissime e da manuale, non cerca ossessivamente uno stile particolare, e per questo risulta classico in modo rassicurante, contemporaneo da far paura, futuribile come la morte.
Non abbiamo in tasca le regole del grande disco rap del 2024, le regole ce le ha date Kid Yugi, provando a dare al diavolo tutti i nomi che conosceva. Un disco di epiteti, direbbe Noyz "un disco de Cristo".
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L'articolo È per gente come Kid Yugi che il rap continua ad avere senso di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2024-03-01 15:10:00
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