Quando nel 2021 è uscito Discomoneta dei Thru Collected, in una certa bolla della musica italiana si è sentito davvero il botto. C’era la qualità delle canzoni, la varietà, uno stile ibrido e ineffabile che sembrava la promessa di qualcosa di diverso. Naturale, in tempi di frequente piattezza e disorientamento, musicale e non, che su un progetto così fresco e sfaccettato si siano buttati tutti. A partire dalla stampa di settore (qui colpevoli e recidivi, rivendichiamo ogni cosa), per finire ai direttori artistici e promoter italiani, Napoli in testa, giustamente afflitti da stagnazione e mancanza di cose nuove in grado di coinvolgere platee attente e variegate.
Una giusta consacrazione, accompagnata a santificazioni e aspettative: salvatori dell’underground, nuove possibili popstar o autori di hit midstream per la Gen Z, voce di una generazione comprensibile anche a quella vecchia, il suono di domani con la lezione di ieri. A metà tra necromanzia e chiaroveggenza, i Thruco dovevano il ritorno al futuro di un certo passato, e intanto cantare, oggi, qualcosa in cui la Gen Z si potesse riconoscere e i millennials potessero trovare un attimo di sollievo da tanta musica sempre più difficile da capire. Abbastanza peso da far crollare qualunque progetto, nella direzione del solipsismo a difesa di uno spirito autentico, o al contrario in quella dell’edulcorazione nazionalpopolare.
Loro, invece, per fortuna su questa ambiguità ci giocano e ci hanno sempre giocato, incredibilmente autoconsapevoli e metamusicali già dalla prima traccia di Discomoneta, Cantautoraverz, che giocava con le etichette, l’eredità musicale, il senso di fare musica. Il Grande Fulmine (leggi qua la recensione per sapere tutto sul disco) si apre di nuovo con una riflessione sulle etichette, sulla fama, sul paradosso della vocazione underground e della benedizione/cooptazione del mercato, alla luce anche dell’inizio della collaborazione con Bomba Dischi. L’opener Musica di merda è un’autodenuncia, genuinamente paracula, un esorcismo che respinge al mittente le paure di commercializzazione e attacca a suon di breakcore e chiptune.
Il nuovo album del collettivo, in effetti, torna per diversi aspetti al punto di partenza, chiudendo un cerchio per aprire un’altra fase di un progetto complesso e sfaccettato, po’ come succede nei grandi franchise cinematografici quando la main storyline mette il punto a una serie di intrecci, spin off e rimandi. Anche l’apertura di questa fase è affidata a un cortometraggio, a ribadire l’importanza dei due linguaggi, sonoro e video: se Dronememorie era un grande ritratto di famiglia giovanile e post-rave, Il Grande Fulmine si tuffa in un’avventura cyberpunk, che guarda al cinema di genere, come già il video-medley uscito l’anno scorso per Sano e Altea, ma raccontando, tra le righe, alcuni tratti salienti dell’approccio Thruco alla musica.
Approfittiamo di questo ritorno a un (nuovo) punto di partenza per fare anche un recap di questi primi tre anni di Thruco in cui il collettivo, almeno all’interno di un certo spazio culturale, sembra essere cresciuto senza sosta. Innanzitutto germogliando nella sua forma collettiva, a partire dai lavori solisti di Altea, Sano, Specchiopaura e Alice. Quattro lavori diversi ma legati da una sensibilità e un’estetica comuni, approfondite in diversi aspetti: dalla la Napoli cyberpunk e allucinata di Specchiopaura e la città sognante di Alice, la stanza hyper rap di Sano e il trip hop liquido di Altea, ha preso ancora più forma un universo immediatamente riconoscibile di suoni, immagini, linguaggi, modi di raccontarsi.
Un universo comune anche se fatto di filoni e sensibilità diverse, che interagiscono e si mescolano mantenendo la propria identità, come in uno degli universi narrativi dei fumetti o dei franchise cinematografici. In questa sorta di "Thruco expanded universe" hanno iniziato a gravitare altri musicisti e progetti: Tripolare, uscito l’anno scorso con il suo EP, Angelo Kras, Flama De Verano, presente in sordina già dal 2021. E ancora Valerio Fatalò dei punk situazionisti Scumma Do Mar, anche loro con un album in lavorazione sotto l’egida Thruco, Bez con i suoi allucinanti strumenti autocostruiti, il duo di dj post-reggaeton Las Winx, i set elettronici dei producer del collettivo Giovanni (Las Vegan) e Rainer (Cinquantanormale) o degli Specchiopaura, attivi anche con gli alter ego Miin Amor e Orcrd con le produzioni targate dall’enigmatica label Superba Pistola. Tripolare, Flama De Verano e Angelo Kras sono presenti in diverse tracce del nuovo album, dove compare anche Arssalendo, titolare di un altro dei progetti più interessanti delle ultime annate.
Del resto anche Altea, Sano e soci ultimamente hanno avuto la loro buona dose di comparsate su tracce altrui, a cominciare da quella memorabile su Arco e Frecce nell’ultimo lavoro di Meg, che ha chiuso un cerchio di legacy e tradizione. Lo diceva stesso Meg al concerto allo Scugnizzo in cui ha eseguito il brano insieme ai ragazzi, “se avessi vent’anni sarei anche io una Thru Collected”.
Qualcun altro di quella generazione di musicisti napoletani Thru Collected onorario lo è davvero, tipo Maurizio Capone, padre di Sano, che ha portato la sua conoscenza delle percussioni e del patrimonio ritmico napoletani su A Danz Do Ragn, una A voce d’o padrone parte due che traccia una linea continua con la tradizione popolare meridionale, musicale e autonarrativa, e che negli ultimi live si è già presentata come una banger assoluta. Tra la tammorra è l’hyperdub, il rave e il morso della tarantola, in questa ’terra ‘e conquista passa solo un’elettricità nuova: “Primm’ sunavamo tammorra e mandulin’/Mo’ sunamm cu’ ‘na rack e ‘nu synth”.
La musica cambia, cambiano le persone e i luoghi, ma in questa città dalle ossa antiche alcune cose rimangono sempre le stesse ed è sempre nelle viscere di tufo di Napoli, nei sottoscala e nelle cantine, che il suono prende forma: le tane dove il mondo dei Thruco sta prendendo forma sono il Buco Studio al Vomero, dove il collettivo è approdato dopo essere passato dalla casa-comune di Fuorigrotta ad altri studi in città, e la Thruco Festa, un format di live set, rap e dj set nei sotterranei del Magma al centro storico di Napoli e in altre location occasionali. Provare a creare e autogestire un proprio spazio temporaneo, con i propri mezzi e conoscenze, sperimentando tecniche e mescolanze, è stata probabilmente una delle cose più proficue sperimentate dal collettivo, necessaria in una città con disperato bisogno di un’idea di clubbing diversa.
Autogestione a parte, i Thruco hanno occupato ogni tipo di palco, a partire da Napoli: dal primo concerto in grande di Discomoneta allo Scugnizzo Liberato fino alla tre giorni di Piazza Plebiscito in apertura a Liberato, Thruco e derivati hanno occupato a Napoli ogni contesto possibile: spazi sociali e beni comuni, rassegne istituzionali e festival di fumetto, sottoscala di locali, negozi di pianoforti. Non troppo diversamente nel resto d'Italia, dove più o meno ogni festival e club, dal MI AMI in giù (qua l'ultima cosa che abbiamo fatto assieme, la sonorizzazione del film che ha accompagnato il disco), ha ospitato un live, un dj set, una festa o un talk legati ai Thruco. E se sullo showcase di tutto il collettivo con voci più basi c’è ancora spazio per crescere, nelle varie iterazioni sono venuti fuori dj set post-club, manipolazioni di nastri e impro con le macchine, versioni in band e semi acustiche da cui la qualità di alcune canzoni e interpretazioni, a partire da quelle di Altea, è uscita fuori in maniera cristallina, al di là del sound design e delle produzioni.
Se c’è un rischio, forse è proprio quello della sovraesposizione, del presenzialismo che corre più veloce dell’esperienza sul palco e delle produzioni discografiche che, giustamente, si prendono i loro tempi per venire alla luce. Non sta a noi dare consigli, ma intanto tocca dire che hanno provato a muovere i loro passi con attenzione, dicendo alcuni no che altri non hanno saputo dire, rimanendo esposti ma vagamente defilati, con i piedi in quello che succede e non solo nella loro ombra, e crogiolandosi il meno possibile nei titoli e onoreficenze. Anche qui, con quell’equilibrio distaccato che forse può avere solo chi è cresciuto nel pieno post-tutto tardo capitalista, i Thruco sembrano tenere a distanza, senza schivarlo del tutto, l’oneroso titolo di portavoce generazionali.
In Terza Stagione Fabrizio canta della voce di una generazione, e se Ferretti ci metteva in guardia con il suo “se divento un megafono mi incepperò”, qui il caveat è già interiorizzato: "sent ‘a voce ‘e na generazione, ca sona d’int ‘o disco finché ‘o disco po nun sona", una generazione stretta da iperstimolazione e apatia, che non riesce a parlare e non viene ascoltata, non può avere rappresentanti e portavoce, ma può solo essere evocata nel disco da un rito di macchine e frequenze.
Si sente la crisi della presenza, quella post-moderna del realismo capitalista raccontata da Fisher, se non quella ancestrale del sud di de Martino, che con i suoi villaggi senza tempo sembra riecheggiare nella periferia immobile e scollegata raccontata sempre da Specchiopaura, ma c’è anche un senso di chiarezza, di verità ("‘a voce ‘e na generazione, ca ve trase d’int ‘e chiocche ‘e ve fa vere e ccose"). Una generazione che non riesce ad avere profeti, chissà, potrebbe rivelarsi un domani quella che non ha bisogno di eroi.
Forse quello che serve, per rispondere a un mondo di facce e parole vuote, di esposizione 24 H, non è un volto ma un insieme di stili, saperi, pratiche. Quelle della musica, dell'incontro, materiche e digitali. Assemblare una macchina rumorosa, scendere in una caverna e fare un festa, mettere insieme ragazzi e ragazze e provare a ridisegnare la mappa sonora della città. "Che fine ha fatt’ l’underground? Se ‘o chiedevano ‘e guagliune pe’ ‘ffore ‘e local".
Se c’è un futuro dell’underground, non sarà certo un ritorno al passato, con l’estetica e le parole d’ordine di trenta anni fa. Se possiamo iniziare a indovinare pratiche nuove, saranno sicuramente più liquide e mutaforma: come un collettivo che fa avanti indietro dagli spazi autogestiti ai documentari realizzati assieme a grandi brand, come una festa che nasce in una cantina umida e poi finisce sul palco di Liberato a Piazza Plebiscito, come un album con una scrittura che strizza l’occhio al cantautorato alternativo, alla canzone indie-pop, al rap, ma poi si liquefa in trenta tracce, pieno di elettronica strana e momenti dance da garage lontani dall’inflazionato revival anni ‘90. Insomma, un lavoro pieno di appeal, ma virtualmente illeggibile dalle rigide categorie dell'industria musicale che “conta”.
C’è una strada nuova da tracciare, come sempre ma forse con più difficoltà che mai, e chiedere ai Thru Collected o a Il Grande Fulmine di averla già percorsa o di essere l’innesco della rivoluzione sarebbe ingenuo e ingiusto. Quello che la storia di questo collettivo e loro nuovo album forse possono fare, invece che illuminare con la forza e la fugacità del lampo, solo per un attimo, un panorama dove si intrecciano strade possibili e percorsi ancora da tracciare. Il collettivo napoletano ha già iniziato ad esplorarne alcuni, con quell’obliquità che gli permette di danzare con leggerezze e andare a fondo come una lama sottile. L’eredità sempre più forte del cantautorato alternativo e dell’underground napoletano senza la trasformazione in revival, la trap senza la trap, un post cantautorato sfacciatamente pop ma ancora non radiofonico, la transmedialità senza la sudditanza all’immagine, la politica, la tecnologia, la musica, il sentimento e la giovinezza vissuti, cantati senza mai diventare credo assoluto. Se c’è una cosa che i Thruco sono riusciti a fare è indicare una possibile strada diversa da alcune alternative infernali della musica di oggi, una strada propria che è molto più importante delle aspettative che abbiamo riposto in questo gruppo di ventenni, delle classifiche. Forse anche delle singole canzoni, che in questo disco sono tantissime, alcune quasi solo un gioco, altre con uno sguardo obliquo da intercettare con calma, altre ancora che bruciano subito di una bellezza vivida e di un’intelligenza rara, in un lavoro così corale e sfaccettato che ci vorrà un po’ ad entrarci in confidenza.
In tanti stanno già provando a percorrere la strada insieme a loro, qualcun'altro, ancora più giovane, ci sta già provando riprendendone l’estetica e il linguaggio. Noi, intanto, nel grande fulmine vediamo prima di tutto lo spirito e l’immaginazione, il lampo estetico e la pausa riflessiva subito dopo, e speriamo che siano questi ad abbagliare più di ogni altra cosa.
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L'articolo "Il grande fulmine" dei Thru Collected indica un'alternativa all'inferno musicale di oggi di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2023-12-01 09:28:00
COMMENTI (4)
@CaponeBungt del resto buon sangue non mente Maurì! Un abbraccio
"In tanti stanno già provando a percorrere la strada insieme a loro, qualcun altro, ancora più giovane, ci sta già provando riprendendone l’estetica e il linguaggio"
e aggiungerei evviva!!! 💜🕸️🕷️
@CaponeBungt Bellissime parole, che condividiamo! Un abbraccio
A questo bellissimo articolo aggiungerei solo che questi ragazzi dimostrano un grande rispetto per la Musica creando brani che non si inchinano al mercato, alle sterili regole di come si deve scrivere una canzone. Forse l’accostamento più aderente è al modo in cui nasceva la musica negli anni ‘70, lunghe jam e libertà di far evolvere i brani per quello che sono senza rinchiudersi negli schemi pop…pur facendo pop. Rispetto! 👊🏾