Il De André più ispirato e controverso: i 40 anni dell’Indiano

Lo chiamano “il disco dell’indiano”, in realtà è intitolato solo col nome del cantautore genovese. Uscito il 21 luglio 1981, è l'album meno omogeneo della sua carriera: accanto a capolavori come “Fiume Sand Creek” o “Hotel Supramonte”, canzoni invecchiate peggio. In ogni caso, una pietra miliare

Un particolare della copertina di "Fabrizio De Andrè", dal dipinto di Frederic Remington
Un particolare della copertina di "Fabrizio De Andrè", dal dipinto di Frederic Remington

Il 21 luglio del 1981 Fabrizio De Andrè pubblica il suo decimo album d'inediti, intitolato semplicemente con il suo nome ma, nel tempo, chiamato da tutti L'indiano per via del dipinto in copertina che raffigura un nativo americano a cavallo di Frederic Remington intitolato The Outlier (1909). Pur non essendo strettamente un concept album, il disco approfondisce legami e differenze tra il popolo sardo e quello dei pellerossa, entrambi secondo Faber vittime della colonizzazione. È il secondo disco in cui il cantautore genovese si avvale della collaborazione de cantautore veronese Massimo Bubola così come nel precedente Rimini del 1978, ed è il primo disco d'inediti dopo il tour trionfale con la PFM che è stato registrato anche nei due famosissimi dischi dal vivo. 

Strano che la collaborazione con la band prog italiana più famosa nel mondo non sia sfociata in un disco d'inediti, ma di acqua sotto i ponti da quel giro d'Italia ne è passata, specie per l'episodio che più di tutti ha segnato la vita di Fabrizio De Andrè e della compagna Dori Ghezzi: il rapimento e la prigionia della coppia avvenuto in Sardegna dal 27 agosto al 20 dicembre 1979 da parte dell'anonima sequestri, esperienza tremenda e rivelatrice a cui il cantautore ha dedicato la canzone Hotel Supramonte proprio nell'album di cui stiamo parlando. In quell'occasione, giusto per evidenziare la statura morale gigantesca dei soggetti in questione, Fabrizio e Dori condannarono i mandanti ma perdonarono i carcerieri e la manovalanza. Faber disse: "Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo, sebbene il reato di sequestro di persona sia tra i delitti più odiosi che si possano commettere”.

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Torniamo al disco, alle sue canzoni che, forse per la prima volta nella produzione di Faber, hanno suoni un po' modaioli, passati velocemente in archivio. Il primo pezzo è Quello che non ho, un blues venato di hard rock davvero singolare nella produzione di De Andrè e non indimenticabile, una delle canzoni che ha resistito peggio alla prova del tempo. Il Canto del servo pastore, nonostante i suoni fin troppo anni '80, torna verso armonie più vicine al suo canzoniere ed è ambientata nell'entroterra sardo, ma la canzone simbolo del disco è la numero tre, Fiume Sand Creek, da quella data presente in ogni suo live. Qui Faber paragona i sardi agl'indiani, raccontando di un massacro di pellerossa avvenuto nel 1864, quando le truppe della milizia del Colorado capeggiate dal comandante John Chivington attaccarono un villaggio di Cheyenne e Arapaho vicino al fiume Big Sandy Creek, uccidendo selvaggiamente donne e bambini. È proprio un bambino sopravvissuto che narra la vicenda, perso tra sogno e insopportabile realtà. Classicone di folk rock etnico coverizzato da molti, tra cui Ligabue nel concerto tributo e dai Pinguini Tattici Nucleari in Faber Nostrum, che ne hanno stravolto la struttura.

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent'anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent'anni
Figlio d'un temporale
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

Ancora Sardegna con Deut ti salvet Maria (Ave Maria) dall'aria pinkfloydiana, cantato dal tastierista Mark Harris in lingua sarda, altra anomalia assoluta nella produzione di De Andrè, tanto caratteristica quanto fuori dai canoni che conoscevamo, specie per la dose fin troppo pesante di rock anni '80. È un momento, poi inizia Hotel Supramonte e anche gli occhi più secchi iniziano a lacrimare. In origine è un adattamento della canzone di Bubola Hotel Miramonti, ma la dolcezza della musica acustica che fa da contrappunto alle parole necessarie, forti, poetiche e dilanianti che Fabrizio De Andrè usa per descrivere a modo suo la prigionia, rende questa canzone un classico immortale, che riesce a emozionare ad ogni ascolto, anche dopo 40 anni. È stata cantata anche da Roberto Vecchioni nel concerto tributo e dagli Zen Circus in Faber Nostrum.

E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme
Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
Cosa importa se sono caduto, se sono lontano
Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
Perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
Ma dove, dov'è il tuo amore
Ma dove è finito il tuo amore

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Franziska, che viene dopo, ha l'arduo compito di riportarci a terra e lo fa descrivendo una ragazza ispirata ai racconti dei rapitori e racconta la storia di lei e del suo bandito che si è dato alla macchia. C'è molta empatia tra Faber e la vita per niente comoda dei rapitori, mentre la musica è latina e allegra. Poi un altro classico: Se ti tagliassero a pezzetti, una canzone d'amore che inneggia alla libertà. Nella versione in studio, Faber cambia il testo originale "signora libertà, signorina anarchia" con "signora libertà, signorina fantasia" e invece di dire "un dio", canta semplicemente "dio". Dal vivo, spesso torna alla prima versione. La canzone è dolce, opera di Bubola secondo il quale contiene anche un verso dedicato alla strage di Bologna del 1980: "T'ho incrociata alla stazione che inseguivi il tuo profumo, presa in trappola da un tailleur grigio fumo, i giornali in una mano e nell'altra il tuo destino, camminavi fianco a fianco al tuo assassino". È stata riregistrata da The Leading Guy per Faber Nostrum, in una versione più alt country veramente godibile. L'originale invece, al solito fa venire i brividi e fa innamorare come la prima volta. Conclude il disco Verdi pascoli, che è un po' il paradiso visto dai nativi americani. Una fine decisamente curiosa perché di tutto ci saremmo potuti aspettare da Faber tranne un reggae in stile Bob Marley. Mica è una canzone brutta, ma di nuovo non ha resistito benissimo alla prova del tempo.

Allora che succede se ascoltiamo questo disco 40 anni dopo? Beh, emozioni contrastanti. Alcuni lo reputano il disco più compiuto di Faber prima dell'imminente svolta etnica grazie a Mauro Pagani e al capolavoro Crêuza de mä, ma se mettiamo a paragone i suoni e l'omogeneità di emozioni di quell'album o dei precedenti (Rimini sempre con Bubola o Volume 8 in collaborazione con Francesco De Gregori), L'Indiano è nel complesso un'opera minore con tre canzoni perfette e immortali, ma anche qualche caduta di stile e di tono a causa di arrangiamenti e scelte musicali troppo anni '80 per stare in piedi oggi. E ormai lo sappiamo bene, i synth e i riverberi sintetici '80s sono invecchiati peggio degli strumenti degli anni settanta. 

 

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Diversa questione sono le parole, in quel campo pochi nel mondo sono riusciti a eguagliare la perfetta costruzione dei testi di Fabrizio De Andrè, che si tratti di denuncia sociale, di empatia nei confronti degli ultimi o di amore. In questo album, poi, c'è una traccia autobiografica così potente che non si sentiva da  Amico fragile e Giugno '73, entrambe contenute in Volume 8. Nella prima parla di se stesso, nella seconda della fine di un amore, in Hotel Supramonte di un altro amore cresciuto in cattività, per se stessi e l'altro, che sa proteggere ed essere vulnerabile, che sa disperarsi e accettare l'inevitabile prendendo il meglio da quello che un'esperienza estrema come il rapimento può dare. Il suo rapporto con la Sardegna, che di questo album è soggetto, non si è guastato dall'esperienza. Faber la definì un'interruzione della felicità. Ecco perché l'album dell'Indiano è così importante, nonostante i momenti minori, nella carriera di Faber: poche volte siamo stati così vicini al suo mondo interiore, spogliato delle allegorie e delle sovrastrutture.

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L'articolo Il De André più ispirato e controverso: i 40 anni dell’Indiano di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2021-07-21 09:42:00

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