E dunque abbiamo imparato una nuova espressione. O meglio, l'abbiamo resa di dominio pubblico. Anche se ognuno potrebbe dare una propria versione della spiegazione, potremmo definire industry plant come una strategia pianificata da un’etichetta discografica o un managment, caratterizzata da un massiccio impiego di risorse e strumenti per la realizzazione del progetto: studi di registrazioni di qualità, collaborazioni con produttori e autori già affermati, forte campagna pubblicitaria, inserimento nelle playlist e videoclip. Il tutto ovviamente affiancato a budget significativi e con l’obiettivo finale di ottenere un successo immediato, cercando di occupare una porzione di mercato il più possibile larga.
Questo termine viene spesso utilizzato con una connotazione negativa, poiché l’artista che viene costruito in questo modo non appare autentico agli occhi del pubblico e viene percepito come qualcosa di artificiale e prodotto a tavolino. Per anni, il concetto di industry plant è rimasto un termine confinato nella spazio degli addetti ai lavori. Fino a pochi giorni fa, per quanto riguarda l'Italia. Dopo l’uscita del primo ep della giovane rapper Lorenzza, per la precisione. Da allora sembra la parola chiave per capire la musica di oggi, industry plant. Ed è proprio su questo che vorrei soffermarmi.
L’industry plant non è IL problema, al di là del caso della giovane artista italobrasiliana. Non lo è nel momento in cui la maggior parte dei progetti musicali attuali possono essere considerati tali. Partiamo dal presupposto che l’etichette discografiche, nello specifico le major, sono delle multinazionali. E qualsiasimultinazionale applica delle strategie di produzione e commercializzazione precise per aumentare il proprio fatturato, rientrare degli investimenti fatti e ottenere un margine di profitto che possa permettergli di dire: “Ho guadagnato”. Intendiamoci, non solo le multinazionali, e non solo nella musica. Ma per le cosiddette major questi obblighi sono ancora più stringenti, perché c'è qualcuno in un altro emisfero a cui rendere conto a cui del contesto italiano è possibile che interessi relativamente poco.
Prima di lanciare un prodotto sul mercato, ogni realtà discografica (pure quelle più piccole ormai) segueuna serie di passaggi necessari a garantirne il successo, o comunque utili a ridurre la possibilità di rischi e aumentare quella dei profitti. Fanno una ricerca di mercato, progettano il prodotto, realizzano dei test, creano un piano marketing, distribuiscono il prodotto e poi lo monitorano per poterlo analizzare. Le major discografiche fanno così, e mica solo loro. Si sarebbe dei pazzi a non fare così oggi.
Per quanto possa fare strano applicare il concetto alla musica (se siete un po naif), la ricerca di mercato non è una cosa tipo summit della Nasa. Anzi, è abbastanza disaramente nella sua banalità. Ci sono i generi di riferimento, il rap che va per la maggiore, con i suoi sottogeneri, il pop e poi c'è il resto. Ci sono le reference, i nomi che occupano le classifiche: Pinguini Tattici Nucleari, Tananai, Olly, Lazza, Geolier, Anna, a seconda del campionato che si vuole giocare. C'è il momento dell'anno e il target di riferimento. Sanremo o le hit estive? O forse si prova la via della classifica e del monte stream, si vuole finire nelle playlist editoriali? A seconda dell'obiettivo, una strategia.
A questo punto entrano in gioco i dati. La figura del data analyst è essenziale per analizzare i dati di ascolto degli streaming così da poter capire i gusti, le abitudini degli utenti e anticipare i trend di mercato. Permette anche di creare un piano marketing efficace identificando il target, la strategia di comunicazione e il lancio del prodotto. Dopodiché il prodotto, che per umanità chiameremo disco questa volta, viene distribuito e incomincia la fase di monitoraggio che può avvenire sulla base delle certificazioni FIMI, dei passaggi in radio, delle recensioni, dei commenti degli utenti. Questi sono i dati pubblici, ma giustamente l’etichetta avrà accesso a molte altre informazioni.
Tutte operazioni lecite. Tutte operazioni che assecondiamo senza neanche accorgercene. E allora, siamo così sicuri che l’industry plant sia il problema? Il business della discografia si basa sul pubblico, e il pubblico non è un’entità astratta: siamo noi. Pensare di cambiare le regole produttive di una multinazionale scrivendo in massa “industry plant” nei commenti di un artista (ultima ruota del carro nel processo produttivo) è una battaglia contro i mulini a vento. Pensare di cambiare noi stessi, invece, è difficile, ma non è impossibile né tantomeno folle. Se i direttori artistici sono sempre gli stessi, se gli articoli sono sempre più innocui e se le radio continuano a proporre la stessa musica è perché, nel corso degli anni, siamo diventati un pubblico passivo e ci siamo accontentati.
È fondamentale, invece, tornare ad ascoltare davvero la musica, analizzarla e creare dibattito. Dare importanza ai dischi che escono e alle canzoni, senza essere ossessionati dai numeri, le certificazioni e le classifiche. Pretendere maggiore qualità e ricercatezza nei brani, e soprattutto esigere un’alternativa. Non si tratta di fare la guerra ai potenti, si tratta di creare spazi nuovi. Altrimenti continueremo a lamentarci di quanto il sistema sia cattivo e ignoreremo che, per provare a cambiare le cose, dovremmo mettere in discussione noi stessi e le nostre abitudini.
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L'articolo Invece che demonizzare l'Industry Plant, cerchiamo delle alternative di Matteo Martino è apparso su Rockit.it il 2024-11-26 15:01:00
COMMENTI (1)
Comunque si possono demonizzare le industry plant E AL CONTEMPO cercare delle alternative, eh. Le industry plant sono criticabili, non è qualcosa che dobbiamo accettare e farci andare bene a prescindere. Non siamo costretti dal "music business" come sembra lo siate voi, a farceli andare bene.