Il 1980 verrà ricordato come uno degli anni peggiori dell’Italia repubblicana. I governi a guida democristiana, il terrorismo di destra e di sinistra, il terribile terremoto in Irpinia, una decadenza economica e morale irreversibile, il sistema delle tangenti elevato ad arte. Poteva succedere qualcosa di peggio al nostro disgraziatissimo Paese a soli vent’anni dal nuovo millennio? Certo che sì.
Lo scandalo delle scommesse clandestine che coinvolse il calcio professionistico, per esempio, un autentico trauma per chi pensava – ed erano veramente in tanti – che il gioco del pallone fosse una delle cose poche pulite rimaste in Italia. E della vittoria di Toto Cutugno al Festival di Sanremo ne vogliamo parlare? Io se fossi Dio poteva uscire solo nel corso di quell’annus horribilis. A novembre, per la precisione. Un novembre facile da immaginare cupo, freddo, tetro, uggioso, cattivo.
Nel 1980, Giorgio Gaber è un artista affermato. I suoi inizi da cantante di rock’n’roll prima, da cantautore e divo del piccolo schermo poi, sembrano lontani. Già da una decina di anni, Gaber ha messo a punto il teatro canzone, una sorta di crocevia tra musica e performance teatrale. Una formula vincente: i suoi spettacoli, oltre a rivelarsi come dei veri e propri avvenimenti, registrano il tutto esaurito ovunque e i dischi che ne scaturiscono vendono più che bene.
Per il cantante milanese è stato fondamentale l’incontro con Sandro Luporini, scrittore e pittore – nonché ex giocatore di basket di buon livello – viareggino conosciuto casualmente in un bar. La collaborazione tra i due risale al 1960, quando, a quattro mani, scrivono la canzone Suono di una corda spezzata, lato B di La ballata del Cerutti. I due daranno il meglio a partire dagli anni ’70, quando il teatro canzone spiccherà il volo, con spettacoli diventati di culto, come Anche per oggi non si vola o Polli di allevamento.
Io se fossi Dio è pronta a uscire già dal 1979, ma nessuno ne vuol sentir parlare. Non la vuole la Carosello, la label con la quale Gaber incide dal 1970, e non la vogliono le altre major, che fanno orecchie da mercante non appena intuiscono di cosa si tratta. "Avevano paura di conseguenze legali. Mi portarono anche degli avvocati", racconta Gaber in un’ intervista con Luciano Ceri pubblicata su Il mucchio selvaggio del settembre 1993.
"La mia casa discografica aveva paura di essere coinvolta in questioni che non le appartenevano, così pure le altre che contattammo, per cui la canzone faceva fatica a uscire". Gaber e Luporini ricorrono alla F1 Team di Sergio De Gennaro, un’etichetta specializzata in musica dance, reduce dal successo di Lady Bug dei Bumblebee Unlimited. Ne esce fuori un vinile a 33 giri registrato da un solo lato, dalla durata di 14 minuti, con il titolo e il nome dell’autore che si stagliano su di una copertina dominata da un lugubre color nero.
Io se fossi Dio nasce da una lunga conversazione telefonica tra Gaber e Luporini. Quest’ultimo narra nel suo G. Vi racconto Gaber: "Il testo di quella canzone (…) mi venne fuori in poco più di un’ora. Buttai giù quindici paginette fitte fitte, scritte a mano di getto, quasi senza correzione. Me la prendevo con tutti, dai borghesi ai giornalisti, dai politici ai brigatisti. (…). C’erano versi lunghi, altri brevissimi e praticamente senza struttura: una specie di scempio della metrica che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di mettere in musica".
Gaber di coraggio, bontà sua, ne ha: una volta trovata la ritmica, Io se fossi Dio prende forma. Grazie anche all’intervento di Sergio Farina, che si prende cura degli arrangiamenti. "Gaber mi disse subito che non voleva un arrangiamento pop", spiega lo stesso Farina in Io se fossi Dio: l’apocalisse secondo Gaber di Mario Bonanno. "Intendeva costruirci attorno, piuttosto, un arrangiamento corale, di tipo sinfonico, una 'cosa alla Stravinsky' mi disse esattamente, che evidenziasse i momenti topici del brano". Farina, oltre a suonare le chitarre, si incarica di dirigere un’orchestra di quaranta elementi: ventiquattro gli archi, quattro le trombe, altrettanti i tromboni, Oscar Rocchi è alle tastiere, Gigi Cappellotto al basso, Walter Scebran alla batteria.
È il testo di Luporini a fare la differenza: quel testo che aveva terrorizzato i discografici e che rende sin da subito Io se fossi Dio un disco fantasma, maledetto, che non viene trasmesso in radio, che non gode di passaggi televisivi. Io se fossi Dio è un’invettiva violenta, un’apocalisse laica, dalle parole urticanti, scomode, spietate. Non si era mai sentito nulla di simile fino a quel momento e, tutt'ora, la canzone può essere considerata un corpo unico non solo della produzione gaberiana, ma dell’intera discografica tricolore.
I bersagli di Luporini sono raggruppabili in quattro macrocategorie: borghesia, giornalismo, politica, terrorismo. L’attacco è frontale, feroce, implacabile. "Il piccolo borghese, com’è noioso, non commette mai peccati grossi, non è mai intensamente peccaminoso. Del resto, poverino, è così misero e meschino. E, pur sapendo che Dio è più esatto di una Sweda, lui pensa che l’errore piccolino non lo senta o non lo veda". Aurias mediocritas, vigliaccheria, ipocrisia: gli elementi per condannare la vecchia e piccola borghesia ci sono tutti, compresa l’azienda di strumenti di precisione Sweda.
Bastano poche strofe per incendiare una volta per tutte il testo: "E a te, ragazza che mi dici che non è vero, che il piccolo borghese è solo un po’ coglione, che quell’uomo è proprio un delinquente, un mascalzone, un porco in tutti i sensi, una canaglia e che ha tentato pure di violentare sua figlia. Io, come Dio inventato, come Dio fittizio, prendo coraggio e sparo il mio giudizio e dico: 'Speriamo che a tuo padre gli sparino nel culo, cara figlia, così per i giornali diventa un bravo padre di famiglia'". È un affondo duro, il primo di una lunga serie, con un Gaber che urla la propria rabbia, facendosi intenso e drammatico.
Dalla borghesia l’attacco si sposta al mondo dell’informazione, con i suoi tic e le sue contraddizioni. "Io, se fossi Dio, maledirei davvero i giornalisti (…), cannibali, necrofìli, deamicisiani e astuti, e si direbbe proprio compiaciuti. Voi vi buttate sul disastro umano col gusto della lacrima in primo piano". Sono passi profetici, il giornalismo delle tre esse – sangue, soldi, sesso – in quel 1980 è in nuce, soprattutto in televisione, e si svilupperà con il passare degli anni, fino ai risultai nefasti che sono sotto gli occhi di tutti. La tv del dolore è il riflesso di una malapolitica che ha messo in ginocchio l’Italia: Pier Paolo Pasolini aveva avvertito tutti, Gaber e Luporini rincarano la dose.
Che la classe politica rappresenti il male è un concetto che non tarda a fare capolino all’interno di Io se fossi Dio. "Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente, nel regno dei cieli non vorrei ministri né gente di partito tra le palle, perché la politica è schifosa e fa male alla pelle! E tutti quelli che fanno questo gioco, che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo (…) c’hanno certe facce che a vederle fanno schifo, che siano untuosi democristiani o grigi compagni del Pci. Sono nati brutti, o perlomeno tutti finiscono così".
Fossero state scritte oggi, quelle parole, sarebbero state rigettate con termini quali qualunquismo, antipolitica, populismo. Allora, nel 1980, la situazione era differente: c’erano un centro, una sinistra e una buona parte della destra situata fuori dall’arco costituzionale; una divisione rigida, con le parti in gioco ben distinte. Il compromesso storico provò a rimescolare le carte, e su quelle rovine la classe politica italiana diede per la prima volta l’impressione di uno sgretolamento al suo interno, che favorì la nascita di forze nuove, schierate alla sinistra di un partito comunista impegnato a predicare l’austerità in nome della solidarietà nazionale, con buona pace della classe operaia.
1988 - Gaber e Luporini preparano il debutto de "Il Grigio". Foto di Enrica Scalfari
Pubblicato da Giorgio Gaber su Martedì 8 ottobre 2019
A fare le spese degli anatemi del brano anche i radicali – "Tu occupati pure di diritti civili e di idiozia che fa democrazia e preparaci pure un altro referendum, questa volta per sapere dov’è che i cani devono pisciare", e i sempre più rampanti socialisti di Bettino Craxi, simboli della Milano da bere e della Tangentopoli che verrà: "Compagni socialisti, con le vostre spensierate alleanze di sinistra, di destra, di centro, coi vostri uomini aggiornati, nuovi di fuori e vecchi di dentro. Compagni socialisti fatevi avanti, che questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti. Fatevi avanti col mito del progresso e con la vostra schifosa ambiguità! Ringraziate la dilagante imbecillità".
In un’Italia spaventata dal futuro, il terrorismo, nello specifico quello delle Brigate Rosse, rappresenta una minaccia alla democrazia, una sfida per la società civile. I brigatisti non hanno ancora mollato la presa e continuano a dettare i ritmi della paura. "Di loro posso dire solamente che dalle masse sono riusciti a ottenere lo stupido pietismo per il Carabiniere. Di loro posso dire solamente che mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente. Io come uomo posso dire solo ciò che sento, cioè solo l’immagine del grande smarrimento. (…) Così potrei gridare e griderei senza ritegno che è una porcheria che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia! (…) Di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento".
Gaber-Luporini
Pubblicato da Giorgio Gaber su Sabato 16 febbraio 2019
Ancora qualche attimo e il brano toccherà il suo punto di non ritorno. La tensione è altissima, la voce di Gaber si fa tesa, disperata, forsennata, apocalittica. "Ma io, se fossi Dio, non mi farei fregare da questo sgomento e nei confronti dei politici sarei severo come all’inizio, perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiare giudizio. E se al mio Dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara, gli fa anche rabbia che un politicante qualunque, se gli ha sparato un brigatista, diventa l’unico statista. Io se fossi Dio (…) avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro, insieme a tutta la Democrazia Cristiana, è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana! Io se fossi Dio, un Dio incosciente, enormemente saggio, avrei anche il coraggio di andare dritto in galera, ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era!".
Poteva andare peggio: nella stesura originale, Moro "resta ancora quella faccia di merda che era". Il leader democristiano era stato assassinato dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia e fatto ritrovare in via Fani a Roma – a metà strada tra le sedi della DC e del PCI – solo due anni prima. Le istituzioni repubblicane erano state messe a dura prova, il livello di scontro con i terroristi era arrivato a livelli inauditi.
Ma perché attaccare una vittima sacrificale come Moro? "Ricordo che fummo molto tentati di scrivere alla famiglia di Moro, ma poi Giorgio ebbe modo di conoscere il figlio e di parlargli personalmente", ricorda Luporini sempre in G. Vi racconto Gaber. "Ci tenevamo moltissimo a spiegargli due cose fondamentali: in primo luogo che non avevamo nulla di personale contro il padre, anzi, abbiamo sempre ritenuto che Moro fosse una delle personalità più intelligenti e colte della Democrazia Cristiana. La nostra accusa era rivolta a lui in via indiretta ma simbolica, perché nessuno meglio di lui, in quanto riferimento carismatico della DC, rappresentava l’emblema di quel compromesso storico che noi continuavamo a ritenere un errore gravissimo (…). La seconda cosa riguardava la bieca speculazione giornalistica, quella tendenza ignobile, nel tempo addirittura peggiorata, per la quale era logico e normale che, appena un politico veniva ucciso, diventava automaticamente il più grande statista del mondo".
Gaber aggiunge, in Giorgio Gaber. La canzone a teatro: "Vorrei sapere, per esempio, perché fino a qualche anno fa si poteva parlare liberamente di Moro, dicendo che anche lui è responsabile del disastro in cui ci troviamo, mentre oggi non si può più. La retorica ufficiale, la pietà istituzionale, ci impediscono di avere reazioni spontanee, umane. Anche di provare pena, dolore".
Sono passati quarant’anni, ma Io se fossi Dio non ha perso un grammo del suo tragico splendore. È un brano attuale, anche se i personaggi che vi sono coinvolti non ci sono più e un ragazzo di venti anni sa a malapena chi era Aldo Moro. Anche la politica è cambiata: gli ideali sono stati sostituti da slogan vuoti e falsi, si fa fatica a distinguere la destra dalla sinistra. Non è cambiato il potere, il suo istinto di autodifesa, le sue cerimonie stantie, lontane dalla vita reale. Probabilmente, oggi come allora, Io se fossi Dio sarebbe rimasto un disco fantasma. Chissà se la rete si sarebbe adeguata.
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L'articolo "Io se fossi Dio", la battle royale di Giorgio Gaber di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2020-11-27 12:01:00
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