Ascoltando un suo brano senza l’ausilio delle immagini, pensereste di aver a che fare con un singolo di Rocco Hunt o Ntò. Guardando un video senza audio, invece, verrebbe da dire che siamo davanti a un intereprete della nuova scuola francese o americana. Non è una questione che si limita al colore della pelle, quanto all’attitudine, alle inquadrature, al flow di questo MC. L’impressione di aver a che fare con un giovane 50 Cent, ma con un'inflessione che tradisce ben altre latitudini.
Nel dualismo risiede il fascino di questo rapper originario del Ghana, ma napoletano al cento per cento. Classe 2004, nato a Casoria, il nome di J Lord comincia a circolare un paio di anni fa, Grazie a YouTube, riceve gli endorsement dei più importanti esponenti della scena locale, da Samurai Jay a MV Killa, da Geolier a Dat Boi Dee, che lo contatta. Col producer, tra gli altri, di Emis Killa, Jake La Furia e Psicologi, J Lord pubblica Gangsta e 2020 Freestyle, i due brani che segnano l’inizio della sua carriera ufficiale.
La donna che compare parlando lo slang tipico degli afro-americani nel video del suo ultimo singolo SIXTEEN è sua madre. “Mammà ca cucеnava a tutt’e paesane ‘int’a na homе”. J Lord è stato adottato da una famiglia italiana, e ci spiega così il suo verso: “Con lei è rimasto un legame che non si può spiegare. Grazie a lei ho capito l’amore per il prossimo, in quella cucina mi ritrovavo circondato da decine di persone che venivano a casa mia per mangiare un piatto tipico africano a base di semola. Era economico e serviva a sfamare tutti i fratelli di colore del quartiere”.
Congolesi, keniani, magrebini, J Lord utilizza il termine fratelli per riferirsi a una comunità di afro-napoletani proveniente da ogni nazione del Continente Nero. Ci tiene a precisare che ha "almeno due famiglie di sangue". E a Napoli come vive uno come lui? “Una città del genere ha reso più facile la vita anche a me. Non voglio dire non ci siano stati episodi spiacevoli, ma a Napoli le persone sono più umane, sono abituate a vivere nelle difficoltà e a darsi una mano".
Quando Davide (Dat Boi Dee) lo ha ascoltato per la prima volta si è emozionato. "La musica sicuramente ha contribuito molto a questo processo di cambiamento, io sono solamente uno degli ultimi interpreti delle seconde generazioni. Anche in Italia, negli ultimi anni, stiamo compiendo grandi passi avanti sul fronte dell’integrazione, è un sogno che si sta avverando”.
Prendiamo come esempio Ghali. I testi delle canzoni del rapper milanese, ricchi di riferimenti “pop” entro i quali può rispecchiarsi ogni ragazzino italiano, hanno promosso l’integrazione in una maniera diametralmente differente. Mi permetto di incalzare J Lord chiedendogli se, muovendosi in un orizzonte gangsta, non ha paura di alimentari stereotipi alla Brumotti: “È un tema a cui ho pensato, nei miei testi cerco di aprire gli occhi ai ragazzi che mi ascoltano, che siano più giovani o grandi di me, italiani o africani. Nella musica racconto quello che vedo, quello che vivo, spero possano imparare dai miei errori per non commetterli”.
Una delle critiche che vengono più spesso mosse al rap, ora che è divenuto un genere sdoganato anche nella nostra nazione, è riguardo la sua mancanza di credibilità, la poca attinenza con la realtà. In Italia, in particolar modo, è opinione diffusa il gangsta rap non possa esistere per la mancanza di situazione adeguate entro il quale generarsi, se non in quartieri iconici come Scampia e in quell’orizzonte estetico che, "fomentato" da prodotti come Gomorra, ha trovato sedimento nell’immaginario comune. Zone come quelle da cui viene J Lord, appunto. “Io queste situazione le ho sotto gli occhi tutti i giorni. Non è facile spiegare la sofferenza che si prova vivendo in 10 in un appartamento durante il Covid. C’è chi fa gangsta rap perché è attratto da quell’immaginario, e chi lo fa perché lo vive”.
A J Lord non piace essere categorizzato come trap. Nonostante le barre serrate in un altrettanto serrato dialetto napoletano, come potevamo presagire dal moniker, i riferimenti del rapper campavano provengono oltreoceano, si spiega cosi la matrice old school del sound cui è arrivato lavorando con Dat Boy Dee: “Come attitudine ci ispiriamo più agli anni 90, vogliamo un suono più potente, pulito, più diretto. A essere sincero a me non piace neanche la definizione di rapper, voglio essere un artista, in futuro di sicuro mi cimenterò con qualcosa di diverso dall’hip-hop. Voglio diventare il Jay-Z italiano”.
E se J-Z è al momento irraggiungibile, a J.L. non dispiacerebbe un featuring col re del gangsta, o inttelligangsta, italiano: Marracash. Magari nel suo album di debutto, al quale, dopo questi primi singoli, ha ammesso di lavorare.
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L'articolo J Lord, anche Napoli ha il suo Jay-Z di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-10-22 17:00:00
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