L'anno era il 1991. L'anno della Guerra del Golfo. E di grande fermento in campo musicale. Hunger Strike dei Temple of the Dog e poi Jeremy dei Pearl Jam e pure Jesus Christ Pose dei Soundgarden, Subbacultcha dei Pixies, Dear Justice Letter dei Fugazi e Girl Trouble dei Violent Femmes non son che alcune delle canzoni che conquistano i mangianastri di tanti in quell'anno. Senza dimenticarci di Unfinshed Sympathy dei Massive Attack e magari qualcosa da Spiderland degli Slint o Loveless dei My Bloody Valentine. Jesse De Faccio, il ragazzo protagonista della nostra storia, nasce a Padova proprio in quell'anno, ma i brani di cui sopra non li sentirà mai, se non a posteriori, a giochi finiti, da qualche compagno di scuola, quando molti di quei gruppi si erano oramai sciolti per i più disparati motivi. Questo, per quanto strano possa sembrare alla luce delle solite recenti retromanie, è del tutto irrilevante all'interno della nostra storia.
Cambio di scena. Il ragazzo è sempre lui, sempre Jesse, sta mangiando a un dinner, durante una gita l'ultimo anno delle elementare mentre il lettore CD (senza anti-shock, ogni movimento un trauma) sforna note incessantemente. Quando dal CD masterizzato parte Smells Like Teen Spirit di tali Nirvana rimane di sasso, a Jesse occorrono poco meno di trenta secondi per ricongiungersi allo spirito del '91 e pensare “Questo tipo canta per me!”, finire quel che gli restava da finire e desiderare una chitarra, una chitarra vera e propria, non quella giocattolo con cui si esibiva per i parenti in casa. Anche se in un certo senso l'approccio sarà assai simile, da quel momento la chitarra l'avrebbe posata soltanto per mangiare, bere e dormire. E per le ragazze, ovviamente.
Siamo alla fine del 2021, dunque esattamente vent'anni dopo quel fulminante incontro e allo scadere del trentesimo anno d'età del nostro Jesse. È l'anno del controverso ritorno di Kanye West e di Gué Pequeno che lo scimmiotta, del rock mainstream all'italiana ma pure dei nuovi alfieri europei: Idles, Fontaines D.C e Viagra Boys. Jesse, oramai noto a tutti come Jesse The Faccio, leggermente meno entusiasta del debutto (I soldi per New York, 2018) e meno speranzoso di un anno fa (Verde, 2020), ma sempre innamorato della musica e della sua chitarra – “Praticamente l'unica vera amica presente durante il lockdown”, dice –, butta giù un EP che nel titolo ricorda molto Woody Allen chiuso a casa in Manhattan, intento a ricordarsi quelle cose per le quali ancora valga la pena vivere: Le cose che ho.
Se il regista americano elenca Groucho Marx, Joe DiMaggio, Armstrong, i film svedesi naturalmente e L'educazione sentimentale di Flaubert, Frank Sinatra, le incredibili mele e pere dipinte da Cézanne e il viso della sua amata Tracy, Jesse lascia scorgere Mac De Marco, l'America di Hopper e Jim Jarmusch, i rigori di seconda di Johann Cruijff, la famosa anomalia hongkonghese di Wong Kar-wai, Parquet Courts, Beach Fossils e Men I Trust, le corse in bicicletta, Altri libertini di Tondelli, il lo-fi depresso da cameretta di Daniel Johnston e Lil Peep, le migliori serie di Netflix e probabilmente la grande amicizia con il fido Francesco Gambarotto, batterista, produttore e coinquilino, sopra a tutto. Il tutto in appena quattro tracce: "Tanto poco il materiale contenuto quanto infinite emozioni e sensazioni e sentimenti ci sono", racconta Jesse.
Lo avevamo lasciato un annetto fa, il giovane/vecchio songwriter padovano, a parlare dei tempi duri e di quanto influiscono sull'arte di ciascuno, mentre riconoscevamo quattro stelline al suo secondo lavoro e lo inserivamo in praticamente qualsiasi classifica lo si potesse inserire. Lo ritroviamo con un ep-terapia, che “Se non fosse stato creato durante tempi bui non sarebbe così accessibile alla razza umana, forse perché ci piace avere a che fare con persone che han problemi come noi”, che ci riporta in un lampo a mezza scena genovese e Battisti, ma anche a molti altri. Se ascoltare canzoni tristi è come realizzare che non sei solo, se riesci a sentire che magari qualcuno sta o è stato peggio di te, o che qualcuno capisce come ti senti, finisci col non sentirti un escluso. Riesci a uscirne, forse, e a procedere con la tua vita.
"Tutto il disco ruota sulla delusione da parte mia rispetto alla fine di una storia, che dalla prima traccia – Credo mi vedi – in avanti va via via deteriorandosi e spegnendosi", spiega Jesse. "Questa delusione mi ha fatto sentire solo per diversi mesi, seppur all'inizio non comprendevo quanto fosse questo il sentimento che avevo dentro. Il fatto di essere chiusi per via del lockdown ha peggiorato poi le cose perché, pur volendo, era impossibile creare sia un incontro che uno scontro che non fosse solo virtuale. Così, quando ho tirato tutto fuori di getto è stato prima di tutto un confronto con me stesso ma nel quale molti si possono rivedere".
Al concerto di presentazione dell'ep dello scorso novembre al festival di Dischi Sotterranei, nella sua Padova, mi hanno riferito di aver visto gente arrivata con le lacrime agli occhi a Come posso, l'ultimo brano dell'ep, con una scia “emocore” quasi alla American Football. E lui? Mai pianto per una canzone? "Alex G., amico. Alcune sue cose mi fan davvero piangere. C'è uno strano legame tra me e Alex G.. Non lui come persona, ma la sua musica. Ad alcuni non piace per nulla perché è scarnissimo, a volte. Be', molte delle sue cose lo sono, ma non è comunque il caso mio".
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L'articolo Jesse the Faccio, la solitudine dei 30 anni di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2021-12-15 12:00:00
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