Il centro di Bologna è un casino. Appena dopo il tramonto in Piazza dell’Otto Agosto scendono orde di ragazzi e ragazze. A occhio non hanno 18 anni. Corrono tra le macchine parcheggiate e quelle che si muovono a passo d’uomo sul margine della piazza, urlano per chiamarsi. Quando vedono un’altro gruppo si danno addosso. Entro in piazza e cammino in direzione opposta, il concerto dei JoyCut sta per cominciare, ma per fortuna il Teatro Manzoni non è distante. Ci sarà proprio l'orchestra del Teatro ad accompagnare il duo electro-ambient per un unica data. Mentre cammino pregusto i synth, gli archi e le percussioni tribali.
Sciaf! Mi volto. Tutta la piazza si è fermata al rumore di uno schiaffo. Una signora ferma il carrellino della spesa. Occhiataccia di disapprovazione. Mezzogiorno di fuoco fatti da parte. Due di loro sono immobili, lo sguardo piantato negli occhi del gringo di fronte. Gli altri intorno sono statue di sale.
I JoyCut erano a trecento metri, svoltati due angoli, nei camerini di un elegante teatro del centro. I ragazzi, lo schiaffo, la signora, le macchine che suonano il clacson per mandare a quel paese i sedicenni che attraversavano la strada di corsa sono solo la cornice del concerto. È quello che rimane chiuso fuori dalle porte in legno e vetro con la grande scritta MANZONI, a pochi passi dal palazzo storico incastonato tra le viuzze che tagliano Via dell’Indipendenza.
Il bello dei JoyCut è che non hanno mai lasciato questa cornice fuori dalla loro musica. Dopo il primo album hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi, nel 2020 hanno suonato a sostegno del movimento delle sardine, e a pochi mesi dall’inizio della pandemia hanno devoluto l’incasso di un concerto live streaming ai locali in difficoltà a causa delle restrizioni.
Per sabato si poteva comprare un biglietto e lasciarlo sospeso. Nessun nome sulla prenotazione, il biglietto rimaneva in cassa e poteva essere “riscattato in qualsiasi momento da qualcuno che ne ha bisogno”, spiega la band.
Fuori dal teatro c’è la fila. Camicie larghe a righe, borse di tela, cravatte sottilissime o grossissime. Gente vestita elegante con tatuaggi in bellavista e altra sgangherata con le braccia intonse. Birkenstock sotto pantaloni eleganti e pantaloni corti con le Dr. Martens. Più la maglietta era rattoppata e più la giacca del completo era elegante, ma ci pensavano i pantaloni di tela a riportare un equilibrio. Drummini ovunque e un leggero sentore di qualche droguccia mescalina. Ho finalmente capito cos’è un hipster, con almeno 10 anni di ritardo sui tempi.
Si entra in maniera confusa ma garbata. Metto il biglietto nella tasca della camicia larga a righe. È stropicciata, ma sotto c’è una maglietta senza loghi appena stirata. I 50 musicisti dell’orchestra sono già disposti. A sedere, tra poco inizia. Le luci si abbassano ed entra il maestro Corvino.
“Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna essere violenti. I metodi del genere di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più alla mente degli uomini. L’ideale sarebbe quello di formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate. In secondo luogo, si continuerebbe il condizionamento riducendo drasticamente l’istruzione, per riportarla ad una forma di inserimento professionale. Un individuo ignorante ha solo un orizzonte di pensiero limitato e più il suo pensiero è limitato a preoccupazioni mediocri, meno può rivoltarsi”.
Il concerto inizia con un pezzo di L’uomo è antiquato di Günther Anders.
Poi entrano Pasco Pezzillo e Gaël Califano, i due membri della band eletto-ambient. Scatta il primo applauso. Sullo sfondo sono proiettate scene di catastrofi ambientali. Inondazioni, tornado, frane e valanghe si alternano a primi piani di animali e immagini di allevamenti intensivi. Gli archi intessono armonie dolci e i synth distorti le spezzano. Spargono per tutta la platea una nebbiolina di elettronica. È TheFirstSong_, il primo brano del loro ultimo disco, TheBl Wave. Le percussioni iniziano a picchiare ritmi tribali. Poi arriva il piano. Suona scale semplici che commuovono con la stessa semplicità di Einaudi.
È un agglomerato magmatico che mi fa singhiozzare. Le immagini di balene e filo spinato che scorrono si mescolano alla musica. Sono emozioni a basso prezzo? Non importa. Siamo più o meno mille persone col naso all’in sù, gli occhi fissi come i ragazzi di Piazza Otto Agosto a commuoverci per le stesse immagini. Non ci sono parole, nemmeno nelle canzoni, che non hanno testi. Mille persone trafitte dallo stesso senso di impotenza e tristezza. I JoyCut ci hanno reso una cosa sola. Potevano farne parte anche i bisognosi dei biglietti sospesi. Magari non sposta in termine di numeri, ma quella del biglietto sospeso rimane una buona idea, soprattutto per iniziative di questo tipo, da ripetere.
Matilde Benvenuti e Gaël Califano si rimbalzano un fill tra batteria e percussioni. Prima lei, poi lui. Le bacchette si muovono alternate. Il suono passa da una parte all’altra del palco. Poi si spezza l’incanto. "Più di due ore di concerto ambient sono impegnative", direbbe un cinquantenne seduto dietro di me, che un po' sta sonnecchiando. Neanche la comparsa di Giò Sada per cantare uno dei pochi testi della serata – GTRC_ lo rianima del tutto.
Il gran finale è una cover di Treasure dei Cure, con tutti gli ospiti della serata. Dietro sono tutti svegli, di fianco a me nessun telefono acceso e davanti tutti seduti. Appena prima degli applausi finali la gente inizia a scappare.
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L'articolo JoyCut: percossi, sospesi, trafitti, vivi di Martino Fiumi è apparso su Rockit.it il 2023-09-18 10:15:00
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