C'è chi può e chi non può. Poi c'è chi potrebbe, ma non vuole. E sono la maggioranza.
Mi ritrovo a fare questo pensiero, in effetti parecchio laterale, appena entrato nella sala prove che ospita l'ascolto del nuovo disco di Cesare Cremonini, in uscita venerdì 25 febbraio. Un rito che mancava da quattro anni e mezzo, tanti ne sono passati da Possibili Scenari, disco che lo ha consacrato definitivamente come la popstar più credibile di casa nostra. La più ambiziosa, dunque la più interessante.
Faccio quel pensiero mentre le casse del Massive Studio di Milano – col cazzo che Cesare manda la cartolina digitale e me lo fa ascoltare con le mie cuffie da 12 euro e 99 – irradiano tutti gli archi con cui, anche questa volta, ha voluto fare volare via (come un Colibrì) il suo disco, 14 tracce tra canzoni e interludi. Che Cremonini in 23 anni di carriera possa vantare una discografia abbastanza notevole se n'è reso conto chiunque sia stato a un suo concerto – ci potrà tornare in estate, con un nuovo tour negli stadi – o coloro che – 14 milioni di italiani o giù di lì – si siano sintonizzati su Sanremo la sera della sua ospitata: un mini-live di un quarto d'ora, ben poco televisivo, tiratissimo, in cui ha sfoggiato un'infilata di singoli uno più impiantato nel nostro cranio dell'altro.
La domanda è dunque: cosa doveva aggiungere con questo suo settimo disco in studio? Proprio nulla. E non perché non abbia nulla da dimostrare: è un'espressione che rifuggo e schifo. Ma perché nell'attesissimo La ragazza del futuro Cremonini aveva l'unico compito – semplicissimo e infernale al contempo – di rimanere fedele alla sua idea di musica. In costante evoluzione, eppure ancorata in maniera salda a dei valori e dei piaceri che tutti notano nei suoi componimenti.
La ragazza del futuro, da questo punto di vista, non tradisce. Prosegue su un percorso che, fortunatamente, non è affatto lineare. Dopo il boom giovanile dei Lunapop erano arrivate fasi molto diverse tra loro – non tutte capite, a loro tempo – dal cantautorato acustico di Maggese alla svolta elettro di Logico, fino alle sinfonie e l'orchestralità di Possibili Scenari.
Queste ultime si ritrovano tutte ne La ragazza del futuro, anzi vengono spinte e di parecchio più in là. D'altra parte certe aspirazioni devi potertele permettere, da tutti i punti di vista. Oggi Cremonini può, dei pochi a potere in Italia. E così ecco gli archi e gli arrangiamenti avvolgenti ma solidissimi, i suoni inconfondibili di Abbey Road dove ancora una volta ha effettuato le registrazioni dell'orchestra – tutto il resto è avvenuto al Logico Studio di Bologna e a Reggio Emilia da Alessandro Magnanini – di un album che si concede aperture quasi epiche. A proposito di Abbey Road c'è un pezzo alla Beatles che è alla Beatles per davvero: si chiama Jeky e ha un bel testo sui giovani e gli ultimi due anni in cui la vita è crollata loro addosso.
Il disco è tutto rivolto al futuro, dal titolo agli stati d'animo che i pezzi cercano di veicolare. Ma il passato c'è eccome: ci sono gli anni '70 e '80 – un periodo in cui l'artista sguazza –, c'è il rock (forse anche più del solito) e inaspettatamente il prog, in una delle tracce più provocatorie e intriganti da un punto di vista sonoro del disco: Stand Up Comedy. Ci sono i Queen, come e più di sempre, nell'ambizione (ancora questa parola) di fare di questo album quasi un'opera pop.
C'è il piano come fondamenta. Ci sono le grandi aperture e i viaggi che portano lontano, già sperimentate nel singolo Colibrì e approfondite in brani come La fine del mondo (scritta a Napoli) o nell'outro cinematografico Chiamala felicità, che si propone un po' come la Poetica di questo nuovo atto e che chiude il disco con un dialogo aperto con l'ascoltatore – "ma raccontami di te" – che dice molto di quell'empatia con chi l'ascolta che in questi anni è stata il vero segreto dell'ascesa di Cremonini. Ci sono momenti in cui emerge il basso di Ballo e momenti "vecchio Cremonini" – quando non poteva permettersi un'orchestra... – con La camicia.
C'è il pop elettronico di Psyco – un pezzo sulla follia quotidiana e le maschere che la gente attorno a noi indossa –, ci sono i synth e i fiati. C'è, come detto, un enorme lavoro per dare forma e senso a tutti questi strati di suono, al lavoro di un'infinità di persone coinvolte dal progetto, come dimostrano le cinque pagine di credits della cartella stampa. Oltre ai già citati, fondamentali sono stati Davide Petrella come co-autore (e corista) e Davide Rossi (produttore di stanza a Copenaghen, con un curriculum più lungo di quello di Mario Draghi), che sarà presente anche in tour.
A tenere assieme tutto questo la scrittura e la voce di Cremonini, la sua "poetica" appunto. I suoi testi che volano alto anche quando parlano della quotidianità più stretta, quando paiono uscire dalla metrica, quando citano parole mai sentite prima in una canzone pop. Quando parla di sesso e sudore – Chimica – o di amore di tutti i giorni – La camicia, che richiama alcuni dei classici del suo repertorio –, quando analizza le nostre fragilità, quando si getta verso il domani e quando indulge nella nostalgia (Stand Up Comedy), quando affronta un addio dolorosissimo, quello del padre, come un regalo in MoonWalk.
In più di vent'anni sempre nella stessa direzione – pur con le mille deviazioni raccontate – ha saputo creare un mondo che oggi tutti conoscono, non solo i suoi fan. "Questo è un Cremonini", ho pensato dopo le prime note del disco come se fosse un quadro, entrato nella sala prove. E sono sicuro che molti penseranno la stessa cosa in questi minuti di ascolto su Spotify o chissà dove altro. Non per il suo accento bolognese mai addomesticato, nemmeno per tutti quei discorsi su Abbey Road o sugli arrangiamenti wow. Per tutte queste cose assieme, che ormai sono la sua cosa e solo sua.
In questi anni abbiamo visto dove il mercato con le sue formule magiche e i suoi appetiti mai sazi, hanno portato la musica. I dischi da 20 tracce ogni sei mesi, il diluvio di feat. sempre uguali, il balletto dei produttori o autori (pur spesso bravissimi) che tendono a uniformare ogni suono. Non ci sono più quasi nemmeno i generi, c'è un magma indistinto di musica che suona più o meno uguale perché fatta dalle stesse persone e adattata a seconda delle sfumature. Vale, ahinoi, anche per i campioni, che per stare sul mercato negli ultimi anni sono scesi a ogni compromesso.
Quindi viva un progetto orgogliosamente artigianale, diverso, unico. Il tempo e gli ascolti diranno cosa La ragazza del futuro dirà in nuovo per la musica italiana e per una carriera già così lunga e prestigiosa – ai primi ascolti mi pare ci siano meno singoli forti che in passato, a esempio, che questo aspetto sia stato sacrificato per privilegiare il concept del disco –, intanto siamo già contenti così. Che questa cosa esista e si possa ancora fare nel 2022. Il mercato salterà un giro.
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L'articolo "La ragazza del futuro" è semplicemente un disco alla Cremonini di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2022-02-24 18:59:00
COMMENTI (1)
Che ossessione che Rockit ha per Cremonini! Sicuramente è un artista di buon livello ma mi permetto di dire che mancano le canzoni nel suo disco, mancano gli strikes, il brivido. La parola "concept" mi offre uno spunto che definirei interessante: con Petrella hanno fatto il solito pop da classifica declinato Cremonini con livello medio. Nessuna canzone è orrenda ma nessuna emoziona minimamente. Proviamo a confrontarlo con il nuovo doppio di Elisa che certo è il contrario di un concept, c'è di tutto, un fiume di canzoni in italiano e in inglese e soprattutto canzoni bruttarelle o medio basse che superano le dita della mano. Eppure in questo marasma-non concept, ci sono bellissime canzoni che superano le dita della mano. Da "seta" a "let me", da "fire" a "tempo perso" e perfgino quella con Jovanotti spacca. Quindi lasciatemi dire che se uno ama la musica, quello che conta è il risultato e nonostante il disco di Elisa non sia un capolavoro a livello unitario, vale centomila volte quello di Cremonini. Penso agli ultimi dischi di Motta e Vasco Brondi che rendono questa idea: dischi che scorrono con un loro storytelling ma che non contengono proprio nulla di memorabile. La musica è trasporto, sentimento popolare, per questo ci lasciamo rapire dalle armonizzazioni vocali di Blanco e Mahmood nonostante il testo un pò stupidino. Ci vuole talento, grandi melodie, produzioni e passione. E ci sono artisti che vivono di rendita per la loro appartenenza di genere o di partito ma che se vogliono fare la storia del pop italiano, devono cominciare a scrivere le CANZONI. Che nel disco di Cremonini mancano sul serio.