“La copertina del disco è una foto scattata dal mio primogenito Lapo. L’anno scorso, in Irlanda. Due ragazzi bellissimi, pieni di luce e di vita. Mi piace il cortocircuito malinconico e nostalgico che vien fuori in scioltezza leggendo il titolo: La Vita Nel Frattempo”. Proprio quando tutti avevano fatto pace che la carriera del più famoso tra gli artisti canadesi (già, è di Montréal come Leonard Cohen) di base a Milano si fosse conclusa con L'Arte Della Guerra Vol. 2 (Musica Distesa, 2015), Giuliano Dottori (qua o in alternativa qua, per chi non lo conoscesse) riparte con un disco che nel titolo, bellissimo, sembra volere proseguire un unico immaginario discorso: La Vita Nel Frattempo (Labellascheggia, 2023).
Uscito pochi giorni fa ed edito in tiratura limitata in vinile e in streaming politico, ossia di singolo in singolo, fino a comparire per intero su Bandcamp, già per questo mi cattura. Mi ricorda infatti un'infanzia squattrinata, passata con una musicassetta dentro la radio, pronto a schiacciare REC per catturare il nuovo brano dei Nirvana, sperando di non dovere mandare tutto a monte per l'infelice commento del Dj o di un fade-out bastardo nei consigli per gli acquisti. Così, di giorno in giorno, fino ad avere un “bootleg” di Nevermind composto da otto singoli prima dell'agognato acquisto in CD.
“In tutta onestà", confessa Giuliano, "c'era la voglia di creare dibattito e vedere se a qualcuno frega ancora qualcosa dei dischi. Ma anche essere una cosa simpatica: scrivere che è uscito ma non lo puoi sentire per intero da nessuna parte. Dunque anche il tentativo per dare vita in più a queste canzoni, per non farle morire dopo 48 ore”.
Non perdiamoci, allora. Tutto riparte, dicevamo, da La Vita Nel Frattempo. Ovvero laddove si parla, si ama, si cerca un dio, sia esso inteso come la propria serenità o (esagerando) come vera felicità, e spesso non lo si trova, quindi ci si sente di nuovo soli, abbandonati, si bestemmia ma lo stesso si va avanti. Allora questo disco, forse, entrerà nella storia discografica contemporanea a testimonianza di un'epoca: la nostra, fatta non solo di mezzi di comunicazione e tecnologia, ma pure di speranze perdute, di ideali andati bruciati di una generazione, la nostra, che credeva di poter cambiare le cose ma che in realtà è stata cambiata dalle cose.
Alcuni input sono rimasti tuttavia intatti: il primo tra tutti, la spinta ad andare comunque in avanti, spronati da un pensiero, da un ricordo o dall'amore in senso ampio, non solo classico. “Credo che il concetto alla base dell’album sia l’accettazione", dice lo stesso Giuliano "dei miei limiti, della perdita, della fine di alcune relazioni. Accettare non significa accontentarsi ma comprendere a un livello profondo perché le cose molto spesso non vanno nella direzione che vorremmo. O, ancora meglio, comprendere che era sbagliata l’aspettativa, non il risultato. Accettare significa soprattutto chiudere cerchi e ripartire più forte”.
E così, mentre lo stato delle cose evolve, il rapporto con quello stare al mondo che a volte è “guerra” può contare su qualcosa di immutabile difficile da rendere così, nero su bianco, più facile attraverso sensazioni, emozioni, esperienze e un immaginario comune come avviene attraverso le tracce di questo disco di musica d'autore velata di indie-pop e (un tempo si chiamava) folkatronica come non ne sentivo da molto. E in una canzone come America, Americae si sente anche un accenno che, con un'altra base, potrebbe essere persino midwest-emocore, di quello da sing-along sottopalco. “Quel pezzo è stato un incubo", si illumina Giuliano. "E sì, ha assolutamente una componente sing-along. Il lato emotivo fa parte della scintilla, poi è tutto un cercare di non tradire quel momento, più un lavoro di mani e mestiere”.
Un rapporto difficile da trattare, quello che potrebbe essere la sopravvivenza, e alle volte fraintendibile, ma se trattato con semplicità molto coinvolgente. L'ascoltatore ci si ritrova e capita riconosca nell'autore una parte di se stesso, un suo pensiero, una ragazza che ha perduto alla fine del liceo o un anno fa, situazioni vissute. Ma si accorge che dietro a tutto ciò non c'è furbizia, retorica, presa in giro, ma solo empatia col genere umano e voglia di raccontare un sentire comune, e ripercorrere assieme cammini vissuti da solo, e dietro a tutto questo c'è qualcosa per me di più complesso: la volontà di capire, la ricerca dei valori nei difetti di una generazione e di coloro che la compongono. Ma mi rendo conto che quest'ultimo livello di lettura comprensibile possa non essere condiviso da tutti.
Durante l'ascolto, mi è spesso tornato in mente l'umore di Mediterraneo, il film di Gabriele Salvatores del 1991. In breve: otto soldati si trovano tagliati fuori dal mondo su un'isola greca, la nave che deve riprenderli affonda e la radio si rompe, c'è una guerra ma è lontana (proprio come il titolo del disco sopra accennato) e la permanenza si trasforma in una lunga attesa che acquista una diversa valenza a seconda dei personaggi: vacanza, occasione per dare un senso alla propria vita, soggiorno obbligato, eccetera.
Allo stesso modo, ne La Vita Nel Frattempo a farla da padrone è la staticità, che non è sempre una connotazione negativa, anzi, può pure portare a risultati più completi e complessi; è un invito alla lentezza, questo disco, a un ascolto più profondo dei brani ma anche di se stessi, al prendersi trenta minuti per entrare dentro un mondo sonoro dove il conflitto personale è soltanto un pretesto per isolarsi e confrontarsi con sé stessi e con gli altri.
“Le canzoni sono nate in modo molto diverso e in periodi molto distanti. Dunque si tratta di canzoni totalmente autonome e totalmente slegate che pian piano ho arrangiato in modo simile. Questa cosa della vita nel frattempo è nata in seguito. La chiave musicale mi ha permesso di aprire una porta su un materiale testuale che non credevo potesse essere uniforme”. Insomma, Giuliano fa autocritica, spegne il telefono e si accorge della povertà che lo ha circondato e fa un triplo carpiato e mezzo dagli Amor Fou – leggete questo suo imperdibile racconto dell'epopea della band! – dove fu il chitarrista e anche da sé stesso. Riesce nell'impresa, con un lavoro bello che urla lucido disincanto e voglia di andare avanti.
Il suo linguaggio è un misto di tradizione e istinto, italianità ed esterofilia, uno spazio in cui rileggere i classici per andare oltre. La comunicativa semplice di Davide Toffolo, si alterna al cantautorato di un Eugenio Finardi, al indie di Paolo Benvegnù e a al pop colto di Alex Baroni con aperture globali che sanno ora di Devendra Banhart, ora di The Books. Qualcuno allora potrà pensare che si prenda sul serio, che faccia la predica, che si parli addosso, tanto più che tutte le canzoni sono state scritte, suonate e registrate da Dottori stesso. Invece no.
Al contrario, sembra sentire un Amore non è Bello scritto da Bon Iver e forse con una marcia in più rispetto al classicismo nostalgico degli anni Zero di casa nostra. Nel Paese dove tutti sono musicisti, dove tutti sono artisti, dove i dj suonano invece di mettere dischi, dove gli accenti si confondono ancora con gli apostrofi, molti dovrebbero prendere esempio da uno come Giuliano Dottori, fosse solo per la parsimonia con cui si palesa e tanto più se i risultati sono così aggraziati e coinvolgenti.
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L'articolo L'arte della parsimonia secondo Giuliano Dottori di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-04-11 14:49:00
COMMENTI (1)
uh uh uh....non andare via....
Ma che bella è "Torna sempre il sole" :')