Turnamm’ a casa
Le luci di Piazza Plebiscito sono spente, ma ancora vibrano nell'aria le note con cui Liberato ha travolto la sua città, Napoli. Ci torneremo, dopo. Prima facciamo un giro in una parte di Napoli nascosta rispetto alle bellezze che abbiamo visto nei video di Lettieri, al Lungomare, ai vicoli pittoreschi a alla vitalità degli scugnizzi in motorino. Fino a una città nella città, un carcere con 2000 detenuti: è qui che Liberato ha scelto di passare il giorno di San Gennaro, la mattina dopo l’ultimo live in piazza, esibendosi in un concerto speciale per i reclusi della Casa circondariale ‘Giuseppe Salvia’, più nota come carcere di Poggioreale.
Il concerto offerto dal cantante e dal suo entourage è parte dell’iniziativa ‘Degni di Nota’, organizzata dalla direzione dell’istituto e dal Progetto Quarto Piano, che da anni si occupa di provare a restituire alle persone recluse e con dipendenze dignità e strumenti per costruirsi un’alternativa. Certo, organizzare eventi in un carcere non è facile, organizzare concerti nemmeno. Figurarsi le due cose insieme, tra burocrazia ed esigenze di sicurezza, soprattutto quando la band si esibisce a volto coperto.
Alla fine, circa cento detenuti assistono a tre quarti d’ora di live senza sconti, un momento unico di rottura della quotidianità opprimente del carcere per un pubblico che spesso non ha accesso alle attività ricreative. Ma anche un momento di protagonismo e sfida ai ruoli precostituiti della detenzione tanto per i reclusi quanto per gli operatori insieme, che arriva ad incrinare le regole quando proprio il cantante mascherato spinge il personale di sicurezza a lasciare che il pubblico si alzasse in piedi: “Ja uagliù, stanno solo ballando”. “Stanno solo ballando”. Pare poco e invece è tutto.
Da Johnny Cash a Folsom, fino a Pino Daniele nel vecchio carcere minorile Filangieri di Napoli, la storia dei concerti in carcere è lunga. Ed è una storia che parla non solo di intrattenimento per persone recluse, ma della possibilità di spaziare oltre, di immaginare e immaginarsi altro rispetto ad un passato ingombrante e ad un presente di privazioni, di sentire diversamente il rapporto con sé stessi, il movimento, i sensi, lo spazio del carcere. Parla del potere della musica come linguaggio, come tessuto comune e orizzonte emotivo di possibilità altre che unisce il dentro e il fuori, andando oltre i giudizi facili e il giustizialismo feroce del dibattito pubblico, e può suonare più forte nel cortile di una prigione che da un palco gigante.
E non che all'aperto si sia risparmiato, visto che i tre giorni di Liberato in Piazza Plebiscito a Napoli sono stati un trionfo: tre sold out in una delle piazze più grandi di Italia per circa 75.000 presenze (nonostante il prezzo non esattamente popolare del biglietto), arriva a conclusione del primo vero tour del cantante incappucciato. Un giro in Europa dedicato alle migliaia di expat italiani, ma non solo, che è passato per Londra, Berlino, Parigi e non poteva finire che in uno dei luoghi iconici della metropoli partenopea.
Il palco è allestito di fronte al Palazzo Reale di Napoli, protagonista di alcuni dei video tratti da Liberato II, e sovrasta il colonnato di San Francesco di Paola, anche lui avvolto da un’installazione luminosa. La scenografia monumentale incornicia quella del gigantesco palco: due maxi schermi al lato, uno centrale copre lo stage e rivela poco a poco le postazioni degli strumenti, percussioni e synth, insieme a quattro persone rigorosamente incappucciate.
Nel lungo intro elettronico che anticipa Guagliò, l’impianto scenico è la prima cosa a colpire, con lo schermo-saracinesca a rappresentare un nuovo layer tecnologico nel mistero antico della maschera: lascia comparire in trasparenza nei visual, tra forme digitali in movimento e luci accecanti, poi si solleva per lasciare spazio alla fisicità dell’esibizione, pronto a calare di nuovo al momento giusto per trasformare il palco in un muro di colori e forme. E chi se ne frega se la famosa identità segreta è ormai a portata di ricerca Google, la pantomima continua a reggere e nessuno sembra avere voglia di guastarla, al punto che di tanto in tanto, come un tempo Ferdinando II di Borbone usciva in incognito dal Palazzo Reale, pare il cantante si aggiri per le serate del centro storico senza essere mai riconosciuto.
Sul palco, invece, ora si espone di più come frontman, aizza il pubblico, ma continua a giocare alla maschera di una specie di commedia dell’arte urban-elettronica, a offrire l’illusione di una soggettività collettiva dove possiamo riconoscere qualcosa di noi. Se non altro come napoletani, come detentori di una piccola parte di quel patrimonio cittadino che Liberato riprende, manipola, celebra e dissacra a ogni melodia autotunata, citazione colta e visual lyric sfacciata. Un universo identitario dove però, magia del pop e dell’iconografia, c’è posto per tutti, dalla ragazzina dei quartieri al trentenne del Nord. Tutti stretti sotto la scritta cubitale ‘WE COME FROM NAPOLI’.
Cultura napoletana portata al parossismo, estremizzata e idolatrata, impacchettata con produzioni audio e video di livello internazionale: il mix di suono ed estetica glocal che ha permesso a Liberato di andare in loop dai telefoni nei bassi dei quartieri fino agli impianti dei club europei è tutto lì, plasticamente messo in scena davanti in uno spettacolo ai livelli delle passate produzioni a Roma e Milano, e ancora oltre per magnitudine. Nella cornice del design ultramoderno e dei visual astratti, didascalici solo quando serve, ci sono anche la post-tarantella del corpo di ballo, l’ospitata di Calcutta à la MI AMI Festival 2017, i pyros a profusione e gli immancabili fuochi d’artificio da festa dei quartieri che coronano il finale dedicato ai campioni d’Italia 2023.
Finale arrivato dopo due ore di concerto che ripercorrono una discografia ormai molto diversa da quella dei primi, brevissimi concerti/showcase. E che, però, sembra essere fatta solo di inni e banger. Dai primi singoli fino ai pezzi dell’ultimo Liberato II, a giudicare dalla reazione del pubblico si tratta di una scaletta all killer-no filler, dove anche le tracce accolte con apparente (e relativa) freddezza al momento dell’uscita sembrano avere acquisito lo status di classici.
Sono tutte canzoni dall’innegabile potenza melodica e poetica, che poi, molto più di quella ritmica ed elettronica, è quella che veramente interessa al pubblico di Piazza Plebiscito. Però sono anche brani che si muovono diversamente dalle versioni studio: medley, transizioni morbide e lunghe code elettroniche, remix con la cassa in quattro, nuovi arrangiamenti di chitarra.
Molto è suonato dal vivo, ma c’è ovviamente una solida base di sequenze ed elementi registrati, funzionali a mantenere richiamare gli elementi più riconoscibili delle versioni studio e a gestire un vero e proprio caleidoscopio di suoni. Quella di Liberato è ormai un’elettronica che mescola house, techno, drum’n’bass, ambient, residui trap, provando a spaziare dal clubbing raffinato al cascione dritto, dal reggaeton alle citazioni di musica popolare. Un patchwork post-moderno di suoni e simboli dove interpolazioni chitarristiche da Rage Against the Machine e Van Halen incontrano i meme e filastrocche sconce della nostra preadolescenza, ma che tiene sempre al centro il senso della melodia partenopea, tra una citazione alla storia della canzone napoletana e una tenerezza neomelodica.
Per le due ore del concerto la piazza è un delirio continuo, più di voci e telefoni che di culi in movimento, e ’o burdello e non sembra arrestarsi all’area concerto. C’era da aspettarsi che in un anno come il 2023 napoletano, con la città in piena esplosione turistica, protagonista dell’immaginario collettivo della musica, dello schermo e del calcio, reduce dal giubileo (mai davvero concluso) dello scudetto, un evento così avrebbe avuto l’effetto della mentos nella Coca Cola, o per usare un riferimento locale, del bicarbonato nella limonata ‘a cosce aperte’ che l’acquafrescaio di Piazza Trieste e Trento vende a pochi passi dall’ingresso del concerto.
Napoli è ormai sempre strapiena, ma in questi tre giorni è sembrata esplodere: pubblico da tutta Italia, centinaia di magliette di Liberato accanto a quelle della SSC Napoli, le strade adiacenti alla piazza ingolfate. Quella sensazione che stia succedendo qualcosa che volente o nolente non puoi ignorare e che tutti, dai tuoi amici a tua madre, prima o poi si troveranno a discutere anche solo per dire “non mi interessa”.
Non ci dimenticheremo facilmente di questo concerto triplo, che qualcuno sui social ha subito definito un evento generazionale, tirando in ballo anche l’epocale concerto del 1981 che, nello stesso luogo, aveva consacrato definitivamente Pino Daniele a voce della città. Paragoni scivolosi a parte, è difficile non pensare al valore simbolico di quella piazza, che già dal nome evoca l’acclamazione a furor di popolo. Quello tra Liberato e Napoli è un rapporto viscerale, che da forma e assorbe la totalità dell’immaginario del cantante anonimo, il quale a sua volta ha giocato una sua piccola parte nello sdoganamento definitivo dell’immaginario napoletano fuori dai confini della città.
Mette un punto alle voci di quelli che, soprattutto tra chi in città “ne capisce”, per anni ha parlato di Liberato come un progetto ad uso e consumo dell’estero, e che adesso invece si è trovato davanti ad festa collettiva di autoctoni e non di tutte le età, dove per un giorno abbiamo visto invertirsi le decennali trasferte dei meridionali verso i grandi concerti del Nord. Mette il punto all’assenza di veri concerti dell’artista a Napoli, che a casa aveva portato solo l’happening del 2018 e mai lo show a piena potenza visto altrove.
La tre giorni adesso restituisce a Napoli un po’ di quella bellezza che Liberato ha preso dalla città, trasformato ed esportato, aggiungendo una data da ricordare ad un anno fuori dal comune, già esploso tra le feste della primavera calcistica e l’euforia sconcertante di una stagione turistica ormai fuori controllo. E poi, Rimanendo all’ombra del cappuccio, il giorno di San Gennaro Liberato mostra una faccia nuova, confrontandosi nel suo momento di massima apoteosi con una realtà difficile, e seguendo le orme di altri artisti napoletani che in passato si sono interessati della situazione delle carceri, da Eduardo De Filippo in giù. Piazza e carcere, mega palchi e cancelli, folle in festa e comunità segregate, legate in questa quattro giorni da una maschera e un canzoniere che ormai si sono ritagliati un posto nell’affresco della musica partenopea e sono lì per restare. Non poteva succedere ovunque, e infatti è successo a Napoli, in una città che anche al centro dei trend continua a sfidare semplificazioni e categorie.
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L'articolo Le quattro giornate di Liberato di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2023-09-20 12:54:00
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