Per ora noi la chiameremo felicità: Léo Ferré raccontato da Carmine Torchia

Cinque canzoni per raccontare il poeta, musicista e cantante Léo Ferré nel centenario della sua nascita

Leo Ferré e la sua scimmia pepee
Leo Ferré e la sua scimmia pepee - Leo Ferré e il suo scimpanzé Pépée, che aveva adottato

Anni fa mi trovavo da Aldo a Udine. Gli ho chiesto di farmi ascoltare qualcosa di nuovo. Prima di andare via mi ha fatto una musicassetta con questo signore a me sconosciuto. È in questo modo che sono entrato in un vero e proprio universo parallelo, perché è così che va chiamato, se consideriamo che Léo Ferré - poeta, musicista, cantante, direttore d’orchestra, anarchico - ha all’attivo qualcosa come 500 canzoni circa, di cui solo una minima parte (non si arriva a 20) tradotta in italiano.
Ho pensato sempre che i suoi testi avessero un peso specifico importante in termini di altezza poetica, in termini di densità di contenuto: parole eversive, capaci di sabotare il quotidiano sentire, di infondere una carica vitale enorme. La sua musica protende verso melodie che non si risolvono quasi mai nella maniera più canonica: anche da questo si comprende che Ferré è stato uno che ha amato la melodia, l’ha compresa fino in fondo, e ha osato, raggiungendo campi inesplorati, perché dalla musica è stato attraversato. Le sue armonie non sono arrangiamenti comunemente intesi ma orchestrazioni, concepite dalla sua testa, dirette da lui in persona. Le sue interpretazioni ne fanno uno dei maestri che sur la scène non si sono risparmiati e hanno dato tutto quello che si poteva dare ad un ascoltatore. È per questo motivo che chi ha avuto la fortuna di incrociarlo ne è rimasto, come dire… ustionato.



Tuttavia, sebbene Ferré abbia vissuto in Italia per circa vent’anni, è un autore poco conosciuto da noi, se non da appassionati e cultori del genere d’autore. È uno che andrebbe fatto ascoltare perché almeno un paio di generazioni l'hanno saltato. E questo è un terribile e imperdonabile errore. È anche vero che ci sono stati cantautori e interpreti italiani degli anni ’60 che gli hanno tributato il giusto rispetto perché, è proprio vero, la canzone italiana deve molto alla chanson française, devono molto a Léo Ferré Gino Paoli, Renato Zero, Patty Pravo, Dalida, Franco Battiato, Francesco Di Giacomo, Milva, Alice, Nada - ma anche altri artisti contemporanei che continuano ad omaggiare il suo genio: Têtes de bois, Peppe Voltarelli, Baustelle, Pippo Pollina, Daniele Silvestri, Mauro Ermanno Giovanardi, Paola Turci e Sergio Cammariere, Alessio Lega, Colapesce, Vasco Brondi, Lucio Matricardi, Les Anarchistes, Morgan, Pane, Gianmaria Testa e Paolo Fresu, Dolcenera e Fausto Mesolella, e molti altri (come il sottoscritto).
Di fondamentale importanza è stato anche il lavoro appassionato di traduzione fatto in primis da Enrico Medail, che di Ferré è stato interprete e che da scrittore in musica ha saputo dare ai versi originali una magica versione italiana. Come lui Guido Armellini, Mario Macario, Giuseppe Gennari (quest’ultimo ideatore del Festival Ferré che si tiene ogni anno a San Benedetto del Tronto). Per chi non lo conoscesse e volesse intraprendere questo sentiero bellissimo, ho stilato una lista di cinque canzoni (ce ne sarebbero tantissime da ascoltare e scoprire, ma quelle le lasciamo a chi vuole approfondire ed è armato di buona volontà).

Il tuo stile (Ton style)
da “AmourAnarchie”, 1971 (traduzione di Enrico Medail)

Una delle canzoni più poetiche ed erotiche della letteratura in musica. Il mistero e la fascinazione dell’amore sembrano condensarsi e sublimarsi nel verso:

“... chi vuol sapere troppo non conosce più niente.
Di te mi piace ciò che posso immaginare,
rincorrendo nell’aria i contorni di un gesto,
la tua bocca inventata al di là del volgare …”

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La solitudine (La solitude)

da “La solitude”, 1971 (traduzione di Enrico Medail)

Il verso libero non cede questa volta alla melodia che invece viene accennata dal suono di un organo che assolve la funzione del refrain. Qui Ferré non canta le parole, le scandisce, come a sottolineare l’urgenza di un’esistenza attiva. Lo fa con indole libertaria, attraverso cioè quello stato di grazia che è la solitudine:

“… La disperazione è una forma superiore di critica.
Per ora, noi la chiameremo “felicità”,
perché le parole che voi adoperate non sono più “parole”,
ma una specie di condotto attraverso il quale
gli analfabeti hanno la coscienza a posto.
Ma… la solitudine …”

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Col tempo (Avec le temps)
da “La vie d’artiste”, 1971 (traduzione di Enrico Medail)

Se uno vuole capire cosa succede quando l’amore nasce e poi sfiorisce, misurare la caducità del sentimento che lega due esseri umani, allora è bene che prenda un paio di cuffie, carta e penna, ascolti questo pezzo e prenda appunti:

“… Col tempo, sai,
col tempo tutto se ne va:
l’altro che adoravi,
che cercavi nel buio;
l’altro che indovinavi
in un batter di ciglia,
tra le frasi e le righe
e il fondotinta
di promesse agghindate
per uscire a ballare.
Col tempo, sai,
tutto scompare …”

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Muss es sein
da “La musica mi prende come l’amore”, 1975 (traduzione di Guido Armellini)

Un’orchestrazione prodigiosa e carica di tensione per questo pezzo che rivendica il valore e la funzione della musica che deve tornare alla strada e non nei luoghi che la mortificano. Di grande suggestione è il momento in cui Ferré si rapporta a Beethoven tramite un dialogo (monologo) quasi febbrile:

“… MUSS ES SEIN? ES MUSS SEIN!
Così dev'essere? Così è!
Ludwig! Ludwig! Sei sordo?
Ludwig la Gioia… Ludwig, la Pace…
Ludwig! L’ortografia è stronza
e poi è carica di superbia.
Il tuo vino rosso macchia
il rigo dei tuoi contrabbassi.
Ludwig! Rispondi! Sei sordo per Dio! …”

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Tu non dici mai niente (Tu ne dis jamais rien)
da “AmourAnarchie”, 1971 (traduzione di Enrico Medail)

La visionarietà di Ferré tocca in questa canzone uno dei suoi punti più alti e intensi. Il testo, surreale e misterioso, è capace di traghettare l’ascoltatore in una “dimensione x”. Già soltanto il primo verso si rivela nel suo potenziale simbolista tenendo sospeso il tutto, e più si va avanti con l’ascolto, più il dipinto si rivela: 


“… Io vedo il mondo come qualcosa d’incredibile.
L’incredibile è ciò che non si può vedere.
Fiori nelle matite, Debussy sulla sabbia
in una sconosciuta località di mare …”

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L'articolo Per ora noi la chiameremo felicità: Léo Ferré raccontato da Carmine Torchia di Carmine Torchia è apparso su Rockit.it il 2016-03-17 14:51:00

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