A guardarla da sotto al palco la vita di Levante non sembra così di merda. Il suo #ManualeDistruzioneTour è all’ottava tappa a Prato (ne prevede dieci) e Claudia Lagona, questo il suo nome di battesimo, non fa sbadigliare nessuno. Il live report di Giulia Falzea.
Il Capanno Blackout è un postaccio qualunque della provincia toscana, che però restituisce un certo senso di scantinato dove gli amplificatori possono vibrare indisturbati. Nel pubblico ci sono le coppiette adolescenti con le maglie a righe che prima o poi piangeranno in una cameretta riascoltando la voce potente di Levante ma anche un paio di signore agée che canticchiano allegre. E poi ci sono i soliti avventori del locale, quelli con la tessera sdrucita, che arrivano tardi e aspettano fuori.
Levante canta. Non è solo il nick name di Twitter, lei, bellissima e spettinata, canta davvero, senza tradire insicurezze vocali e ritmiche. Ha un volto disegnato: le mascelle pronunciate che incorniciano le labbra carnose e rosse e gli occhioni neri, potrebbe anche non fare nulla, è proprio bella da vedere.
Il concerto inizia dopo la mezzanotte e lei si presenta con una canottina bianca corta, una felpina trasparente, shorts e calzettoni. Sul palco anche i più che validi Bianco, Daniele Celona, Federico Puttilli e Alessio Sanfilippo. Da una che è diventata famosa per la canzonetta estiva, che canzonetta estiva non lo è affatto, ci si aspetta un disincanto naif, atmosfere bambolesche e palloncini colorati. E invece ci si trova davanti a una rocker puro sangue, con punte punk niente male.
Il primo pezzo è “La scatola blu”, quasi a farci entrare di forza in questo suo mondo fatto di piccoli mondi blu appunto, dove tutto ha un nome e una sua, seppur quotidiana storia e ragione d’essere. Con “Farfalle” fa capire immediatamente la sua cifra: convivono in questa ragazza siciliana con un accento contaminato dalla vita torinese due anime che fanno a pugni anche sul palco. C’è la ventenne che racconta i suoi languori irrisolti, le piccole lamentele, le frasi a mezza bocca. Da quella stessa bocca, però, pronuncia parole sarcastiche, risolini da perfetta stronza, che sa di esserlo che alla fine quelle stesse farfalle le vomita lì sul palco, mentre abbraccia la chitarra.
La chitarra, capitolo a parte: Levanta suona. E sebbene questo non sia un suo nick name, la chitarra la veste interamente. Quando la cinghia le scivola sulla spalla è come se le cadesse una spallina del reggiseno, quando se la spinge addosso è come se ci facesse l’amore ed è esattamente quello che sembra fare per un’ora su un palco di un postaccio di provincia.
“Mela” è uno dei pezzi più belli dell’album e dal vivo, cantata e suonata con Bianco, rende ancora meglio. Lei non si risparmia affatto ed il palco è come se la rapisse e come se da sola volesse suonare tutti gli strumenti, e infatti ha una bacchetta per picchiare la batteria alla fine dei pezzi. E poi Levante è una creatura notturna: odia le luci che le sparano addosso e manco fosse Fat Mike dei Nofx ci regala un doppio dito medio che sembra una posa plastica. Mentre canta e suona tutto il suo album, 13 tracce una più malinconica dell’altra, recita le strofe producendo immagini nell’aria che sono come brevi video live. Come se le parole e la musica non bastassero Levante ti mostra quello che vuole dire con le sue mani bianche e le dita affusolate. Su “Memo” prova il numero del grande cantante e lascia il microfono al pubblico già alla seconda strofa e i pratesi rispondo contenti di far parte del groviglio di ricordi della nostra. A tratti ricorda la prima Carmen Consoli, forse per la perizia nel suonare o forse perché è facile accomunare due siciliane così: hanno entrambe un incarnato bianchissimo e una voce che ti perfora in mezzo al petto attraversandolo da parte a parte. Soprattutto in “Non stai bene” e “Cuori d’artificio” ti urla in faccia tutta protesa in avanti che lei lo capisce che non si può stare bene in un mondo così finto e melenso.
Sul palco è un continuo di salti e il suo corpo assume delle pose quasi artificiose. Gioca con i pratesi, dice loro che sono pessimi quando le urlano “Tappami Levante! Tappami”, che è più che altro una dichiarazione d’amore e lei risponde con “Come quando fuori piove” con un giochino di rimandi e citazioni. “Sbadiglio”, il secondo singolo, diventa un geghegè e lei ballicchia contenta che questa storia d’amore finito lo si possa anche danzare. Inutile a dirsi, “Alfonso” la canta più il pubblico che lei: dalla platea a chi più urla che la sua vita è una merda, e nonostante questo gli auguri al malcapitato sconosciuto li si fanno ugualmente. È un vento scapigliato del sud quando canta “Le Margherite sono salve”, “Senza Zucchero”, “Nuvola” e “Duri come me”, tutti pezzi in cui l’anima rock la pervade completamente e si fa carne, jack che si staccano per sbaglio, coreografie improvvisate, batterista in piedi sullo sgabello, coretti e armonie surf e lei che si spoglia agitandosi come fosse ancora nella sua stanzetta in Sicilia.
Levante canta e suona in fibrillazione per un’ora e se ce lo chiedete noi su quel trenino deragliante ci saliamo con lei che da questa prospettiva non ci sembra proprio una vita di merda.
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L'articolo Il concerto di Levante al Capanno Blackout di Prato di Giulia Maria Falzea è apparso su Rockit.it il 2014-04-12 00:00:00
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