L'industria musicale sta benissimo, noi altri un po' meno

La crescita del settore, grazie soprattutto allo streaming, è impetuosa e i dati della discografia italiana sono entusiasmanti. Ma in controluce si leggono gli enormi problemi di un settore in cui la disuguaglianza è regola e le frustrazioni sono tante

Dal live di Madame al Forum d'Assago - foto Starfooker
Dal live di Madame al Forum d'Assago - foto Starfooker
29/03/2024 - 14:31 Scritto da Dario Falcini

A partire dai dati difficilmente si sbaglia, a non provare ad analizzarli più in profondità facilmente ci si abbaglia. Dunque, facciamo ciò che è giusto. E riportiamo dei numeri che in queste ore sono circolati parecchio, e che sono oggettivamente ottimi. "Il 2023 segna un importante milestone per il mercato discografico italiano, che registra una significativa crescita del 18.8% per un totale di € 440 milioni di fatturato", inizia così il comunicato di FIMI, la federazione dell'industria musicale italiana, che a sua volta cita un report molto importante diffuso negli scorsi giorni, il Global Music Report, indagine che si concentra sui ricavi generati dall’industria musicale, quella stessa che all'inizio del millennio pareva in coma irreversibile per la crisi del disco fisico e la mancanza di un modello alternativo. 

Un report che secondo FIMI evidenzia "un'evidente vitalità del mercato della musica in Italia". L'incremento di casa nostra, infatti, rappresenta una delle percentuali di crescita più alte del mondo, che posiziona quello italiano come terzo mercato nell’Unione Europea. Questo in un contesto di crescita di tutto il sistema: l'incremento del mercato discografico internazionale è del 10.2%, pari a 28.6 miliard di dollari. È il nono anno consecutivo di crescita. Cosa interessante, sono tutti i segmenti che compongono l'industria a crescere. 

Lo streaming, e non è in alcun modo una novità, traina la crescita, con una quota di mercato complessivo pari al 65%. I ricavi in Italia sono cresciuti del 16.2%, arrivando a 287 milioni di euro (+9% rispetto all’anno precedente) con oltre 6.5 milioni di abbonati premium ai servizi di streaming (+18.4% con 190 milioni di euro di ricavi). Secondo l'IFPI Engaging with Music nel 2023 i consumatori italiani "hanno speso 20.9 ore settimanali nell’ascolto musicale e il 60% del tempo impiegato è stato destinato all'ascolto di musica digitale, il 73% ha ascoltato musica tramite servizi di streaming audio licenziati (nella formula in abbonamento o con pubblicità)".

Crescono anche i dischi fisici, segmento in cui l’Italia è l’ottavo mercato a livello mondiale. Qua i ricavi sono pari a 62 milioni di euro, la quota di mercato è del 14%, il segno più percentuale del 14.4%. "A guidare il comparto è l'inossidabile vinile, che cresce del 24.3%, ma si segnala anche una resistenza del cd, su del 3.8%", spiega la FIMI, secondo cui "ha avuto un ruolo centrale l'impatto del Bonus Cultura 18 app, che ha raccolto € 11 milioni. Complessivamente l’impatto sul mercato della musica registrata del Bonus Cultura delle sette edizioni passate è di € 122 milioni".

Il report si concentra poi sullo stato di salute della discografia, strettamente correlato con quanto detto sin qui. L'80% degli album in Top 100 per la FIMI/GFK sono titoli italiani, nel 2013 erano il 63%. Il numero di album in grado di superare la soglia dei 10 milioni di streaming (premium + free) è stato di 793 nel 2023, 235 titoli in più rispetto al 2022, culmine momentaneo di una curva crescente costante. Ci sono poi i diritti connessi, cioé i ricavi da licenze per l’uso di musica in radio, televisioni, pubblici esercizi, palestre o feste private, che "sono cresciuti di un importante + 42,6% - con un fatturato di quasi € 73 milioni, che posiziona l’Italia come settimo mercato a livello globale". Minore, ma non trascurabile, il tema dei diritti di sincronizzazione, la musica impiegata nelle pubblicità, film, serie TV, che ha visto un incremento del 3,5%, raggiungendo quota € 13 milioni. Infine, e sarà il centro di un nostro focus nei prossimi giorni, nel 2023 i ricavi dall'export della musica italiana all'estero sono cresciuti del 20% (+130% rispetto al 2020), per un totale di entrate da royalties pari a più di 26 milioni di euro (21 milioni dei quali dal digitale).

Tutti numeri che non tengono conto dell'altra "gamba" del settore, quello della musica dal vivo, per cui per avere dati aggiornati e quindi rappresentativi (considerando quella devastante cesura che è stata la pandemia) bisognerà aspettare l’Annuario Statistico dello Spettacolo fornito da SIAE. Gli ultimi dati sono relativi al 2022, sono molto positivi in termini di numeri assoluti e percentuali e per altro sono corroborati da quello che vediamo ogni sera nelle grandi arene live, nei festival e sui social. Grandi tour, annunci, sold out, in generale la sensazione di un momento più che positivo (qua qualche nostro punto fermo in merito) per chi allestisce palchi e per chi li calca. 

Con i dati abbiamo finito, grazie per essere arrivati fin qui. Ora, però, manca una parte altrettanto importante: provare a leggerli, questi dati. Non si tratta di fare gli uccellacci del malaugurio: se il settore sta bene, stiamo meglio anche noi, visto che, pur dalla nostra specifica posizione, di questa industria facciamo parte. Però pensiamo che sottolineare ciò che non va in un momento che tutti delineano come positivo se non magico – e da un punto di vista dei numeri assoluti lo è sicuramente – sia un lavoro prezioso, seppure non granché di moda. Insomma, "la potenza è nulla senza il contesto".

Non crediamo che sia un caso che, mentre la discografia italiana e quella internazionale, fanno registrare le loro migliori performance, da parte di un gruppo sempre crescente di artisti si alzi un grido d'aiuto. Mediaticamente c'è stato il caso degli artisti che si sono fermati perché a un passo dal burnout (nel nostro piccolo abbiamo lanciato assieme a MI AMI un format intitolato Incompatibili con la felicità, proprio su questi temi) e il cosiddetto "affaire James Blake" che in pratica ha detto "ok, bella la musica gratis, ma a me non viene in tasca nulla". Se ha di che lamentarsi una superstar come lui, figuriamoci gli altri.

Perché il tema, oltre ai ritmi selvaggi e ammazzacreatività a cui sono sottoposti gli artisti, sta proprio qua. È un sistema che cresce, ma con essere crescono le diseguaglianze. Da questo punto di vista, le piattaforme sono un accelleratore "oppenheimeriano" di diseguaglianze. La nostra società algoritmica premia chi ce la fa, è in grado di portarlo da zero a mille (e questo può essere meraviglioso) in un amen. Chi raggiunge il vertice della piramide va a stare bene, molto bene, e a contribuire a quei segni più in doppia cifra che giustamente vengono esibiti come trofei.

E tutti gli altri? Intendiamoci, non siamo così naïf da pensare che si potrebbe applicare una forma di socialismo reale alla discografia. Oltretutto i big e super big della musica ci sono sempre stati, e sono sempre stati loro a guidare il mercato, imporsi nella cultura popolare con i propri pezzi, spostare le masse con i tour, interessare la gente con la propria vita privata. Al più potremmo fare valutazioni sulla qualità delle proposte, ma quella è tutta un'altra faccenda che ci porterebbe troppo fuori. 

Ma prima con una carriera di "medio" livello ci si poteva campare, oggi sempre meno. È così per la musica e per la quasi totalità delle attività in ambito creativo, il cui "esercito" spesso per altro vive nelle città in cui il costo della vita è più alto. Questo dipende da vari fattori: anzitutto il cambiamento delle fonti d'entrata per un musicista, con il predominio del digital. La decisione di Spotify per cui alle canzoni che non raggiungeranno la soglia di mille ascolti in un anno non saranno pagate le royalties in tal senso è paradigmatica. Per quanto legata a un'azione di contrasto alla cosiddetta musica fake che ha una sua ragion d'essere, suona come una "strage di tutti i Filistei" per chi certi numeri se li può sognare (per ora). Inoltre il mercato dei live è uscito stravolto dalle ultime stagioni. 

Certo, c'è chi fa dieci Forum consecutivi tutti pieni, ma ci sono allo stesso tempo decine di artisti che hanno visto chiudere uno dopo l'altro i piccoli live club che erano come delle case per loro, in città come in provincia. Un ultimo tema, forse il più pericoloso di tutti, è – per quanto una certa reazione "underground" ci sia, e la stiamo monitorando con attenzione – è l'omologazione a cui spinge una simile situazione. Il modello è tutto sommato "allo scoperto": per quanto non ci sia una formula magica, gli ingredienti del trionfo sono noti e provare a replicarli è una strada semplice e intrigante. Il loop è completo: il successo di alcuni, spesso molto transitorio, la frustrazione di tutti gli altri, i burnout. 

Vi ricordate "we are the 99%"? Quella volta non è andata benissimo, per praticare ottimismo ci vuole molto... ottimismo. Però la musica è una passione immensa, vogliamo davvero lasciare che non ci rappresenti più?!

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L'articolo L'industria musicale sta benissimo, noi altri un po' meno di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-03-29 14:31:00

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