Era l'11 maggio del 1990 quando sugli scaffali dei negozi di dischi - qualcuno se li ricorda - faceva capolino un cd / vinile con una copertina piuttosto strana, tutta virata sul bianco, con dei testi scritti in sovraimpressione, una grafica scarna e un nome lì davanti: Ligabue. Che non potesse trattarsi del pittore Antonio lo sapevamo, ma allora chi era? Intanto il suo aspetto non suggeriva l'ennesimo volto del pop italiano, ma neanche un tipo alternativo in stile Piero Pelù dei Litfiba. Di sicuro, ad ascoltare quel disco, Ligabue faceva rock, ma diverso da quello di Vasco, che in quegli anni ne deteneva il monopolio. Il suo, di Ligabue, era più americano, esterofilo, sembrava prendesse a piene mani da Bruce Springsteen quanto da Bryan Adams, ogni tanto sceglieva la via degli U2 virando a volte pericolosamente verso le sonorità dei Bon Jovi.
Ligabue, che oggi conoscono anche i muri, che con 165.264 persone a Campovolo, nel 2005, ha detenuto inoltre il record europeo di spettatori paganti per un concerto di un singolo artista, record mantenuto per dodici anni, che ha pubblicato una fraccata di dischi, alcuni di essi dimenticabili, che ha scritto libri e diretto film, tra cui quello spaccato generazionale che è Radiofreccia (1998), ai tempi non era proprio nessuno, e non era nemmeno giovane. Aveva esordito discograficamente a trent'anni, dopo aver cantato negli Orazero, una band amatoriale emiliana.
Venne scoperto da Pierangelo Bertoli, che incluse Sogni di rock'n'roll e Figlio d'un cane scritte da Ligabue in due suoi dischi, prima di proporlo al produttore Angelo Carrara, per un debutto che avrebbe dovuto intitolarsi ...E non è obbligatorio essere eroi, frase tratta da Marlon Brando è sempre lui. Ma ci arriveremo. Intanto concentriamoci sulla figura di Ligabue: faccia di cuoio da indiano di Correggio, gilet di pelle o in stile peruviano a caso, spesso indossato sul torso fin troppo nudo, jeans con bandane, stivali camperos, bracciali e collane che di nuovo sembrano uscite da una riserva indiana, sopracciglia folte con uno sguardo ammiccante, capello più lungo dietro che davanti. Praticamente un disastro, o un idolo, dipende da chi lo riceve.
Le canzoni del suo album d'esordio sono praticamente tutte delle potenziali hit per chi ama il rock americano e quell'immaginario dei sopravvissuti che scappano dalla famiglia per salvarsi, canzoni d'amore e di baldoria da strada, descrizioni semiserie della provincia emiliana, storie di sesso e di miti, sempre a stelle e strisce. Ecco la cosa che più lo rappresenta e lo definisce, questa tendenza a voler essere americano di Correggio a tutti i costi, ma di quell'America immaginata più che vissuta davvero, quella dei film di Brando e dei libri di Keruac, dell'immensa libertà contrapposta a una poetica che a volte stona con la realtà provinciale che fa parte di Ligabue.
Balliamo sul mondo è il primo singolo, chitarra elettrica un po' 80s, batteria che picchia, bella veloce, due giovani paragonati a Fred Astaire e Ginger Rogers che vogliono fuggire per prendersi il mondo, quelle cose lì. Fa colpo su quelli che non ascoltano Vasco, perché Liga è rock, sì, ma non dà l'idea di essere un cattivo maestro, è uno pulito. Le sue canzoni diventano classici da schitarrata all'oratorio, tra i boy scout, tra le band amatoriali he ne iniziano a fare le cover perché sono facili da suonare, tra i sognatori provinciali, e ricordiamoci che tutta Italia è provincia, specie alla fine degli anni Ottanta. Insomma, non il più alternativo dei pubblici, gente che ama il rock classico, la canzone con l'assolo di chitarra nel mezzo, le frasi che possono essere ricopiate sul diario.
Più che un album di canzoni, quello di Ligabue sembra un libro di racconti: c'è la mezza spoken Bambolina e barracuda in cui il protagonista è un playboy che viene incastrato da una dominatrice, Piccola stella senza cielo che parla di una ragazza che commette un peccato d'ingenuità che non si perdonerà, Non è tempo per noi e Sogni di rock'n'roll che definiscono un po' chi sono le persone di cui parla Ligabue, nel bene e nel male - viaggiatori on the road che consumano chilometri, uomini tutti d'un pezzo, peccatori, ma anche 4 sfigati che giocano a fare le rockstar in macchina ascoltando i dischi e suonando per finta.
Ci sono canzoni un po' più uptempo tipo Figlio d'un cane, altre più blues come Freddo cane in questa palude, altre più lente e datate come Angelo nella nebbia. Poi c'è Bar Mario, che potrebbe essere la carta d'identità del giovane Ligabue e del suo luogo di appartenenza, con un testo che descrive perfettamente la giornata e tutti i personaggi che ruotano intorno al bar ce è solito frequentare, un po' felliniani, un po' quelli del Bar Sport di Benni, un po' americani di Correggio, come sempre.
E la musica? È rock innocuo per quelli abituati ai suoni più ruvidi, un passo indietro per quelli che vengono dalla new wave, ma molto familiare ed accogliente per chi cerca proprio quello, che da lì a poco sarà lo standard del rock italiano, che genererà un'infinità di band tutte uguali con voce - basso - batteria - chitarra - tastiere, 4 accordi, suoni un po' troppo laccati per essere davvero credibili e un cantante che veste come il giovane Ligabue, facendosi ridere dietro al pub in cui suonano. L'originale userà questa formula per un altro album, Lambrusco, coltelli, rose & popcorn, in cui è presente quella Urlando contro il cielo che è diventata anche un coro dell'Inter allo stadio.
Con la sua band dell'epoca, i Clan Destino capitanati dal chitarrista Max Cottafavi e dal batterista Gigi Cavalli Cocchi (successivamente anche nei C.S.I.) registrerà anche Sopravvissuti e sopravviventi, poi cambierà band e sceglierà suoni meno 80s, più vintage, con l'album Buon compleanno Elvis del 1995, che include anche Certe notti, il brano sicuramente più famoso del Liga. Il resto è storia, a volte interessante, altre meno. Rispetto alla seconda parte della carriera di Ligabue, i suoi esordi sono caratterizzati da un'ingenuità di fondo, sia nei testi che osano di più, sia nella musica così "classic rock con venature hard", che ancora oggi ce li fa apparire molto più gradevoli di quando ha deciso di ripartire utilizzando un altro registro, quello del pop rock da classifica, fino alla nausea, perdendo sempre più di vista l'indiano reggiano che era dentro di lui.
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L'articolo Luciano Ligabue nel bene e nel male di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2023-05-11 10:54:00
COMMENTI (4)
Analisi molto superficiale che non dice nulla di nuovo rispetto ai soliti stereotipi. Ad esempio quella dei 4 accordi è il cliché sentito nei bar, delle persone che non sanno nulla di composizione e di armonia. Chiaro che quando si producono centinaia di canzoni, ci si ripete nello stile e nei contenuti, e non si può evolvere più di tanto il modo di cantare. Ma tutti quei riferimenti alle band americane, allo stile indiano-reggiano, sono fuorvianti per chi non conoscesse l'autore: lo sfoggio edonistico di chi vuole dimostrare la sua cultura musicale e poco più. Nessuno si offende, sai che c.zz se ne frega del giudizio su un cantante sul web. Non mi considero nemmeno un fan, quindi figurati se mi offendo (rispondo al commento precedente) ma banalizzare la produzione di un grande artista senza approfondire nulla della sua poetica, è un pò deludente da chi ha l'onore di scrivere su una testata specializzata come Rock.it. Detto questo consiglio di ascoltare gli album, facendo tabula rasa degli articoli faciloni come questo, che "l'odore dei fossi, lo riconoscono in pochi". ;)
Ok, ora inizia la passerella dei fan offesi. Buon shitstorm a tutti (p.s. Sull'analisi sopra davvero poco da obiettare)
Ammazza che recensione livorosa, pare un pro-vax che parla (parlava?) di un no-vax o viceversa.
hai tralasciato mezza carriera, cioè da certe notti in poi. ok, buona parte di questa carriera composta da dischi e singoli "rivedibili" ad essere generosi (e sono un suo fan), ma qualcosa di buono anche qui "c'è stato, ce n'è e ci sarà"