Di ritorno dal MI AMI Festival è stato facile emozionarsi per la vitalità della musica italiana che dopo la sbornia della trap e del synth pop sembra aver ritrovato la voglia di parlare attraverso la musica suonata e pure suonata bene. Live set come i Nu Genea o Iosonouncane - ma pure La Rappresentante di Lista e Giorgio Poi, per fare qualche nome - potrebbero dire la loro in ogni festival europeo e per quanto riguarda i primi due nomi, già lo stanno facendo.
Il grande assente dai palcoscenici è il rock, quello suonato con gli strumenti tipici del rock, che sappia innovare una formula piuttosto desueta e possa concorrere agli stessi palchi delle grandi star del momento, dai Fontaines DC agli Idles. Al festival milanese abbiamo visto concerti molto fighi di Leatherette, The Jackson Pollock, Smile e Giallorenzo, per fare qualche esempio, ma la formula del rock in Italia resta sempre di nicchia, niente che possa davvero ambire a un successo da classifica o a grandi numeri dentro o fuori dai nostri confini. Oppure si sposa con la trap per dare vita a fenomeni di revival emo tipo La Sad per un target di teenager.
Togliamo ovviamente i Måneskin dal conteggio, loro sono l'eccezione sfavillante che conferma la regola ben meno glitterata: da quando hanno conquistati il mondo, un po' tutti i musicisti di casa nostra - compreso un incompreso Achille Lauro all'Eurovision o i Gazosa riuniti senza la cantante - hanno tentato di giocare con chitarre elettriche e vedo non vedo, confermando il fatto che i Måneskin siano un unicum irricreabile a tavolino, piacciano o meno.
Ma perché il rock in Italia non esce quasi mai dall'Italia? Qualche anno fa la scena pesarese di Soviet Soviet e Be Forest portava la wave in giro per il mondo, suonava al SXSW e o al KEXP Studio faceva più proseliti fuori che a casa nostra. Una volta esaurita la spinta propulsiva, non c'è stato un ricambio adeguato e in ogni caso, sempre di nicchia super indie si parlava. Niente a che vedere coi numeri che i Fontaines DC stanno facendo in questi giorni.
Che sta accadendo al rock in Italia? L'abbiamo chiesto a chi con la musica ci lavora a vari livelli e quello che esce fuori è una cartina tornasole piuttosto disillusa del panorama dello stivale. Pietro Fuccio di DNA Concerti dice la sua: "Non è il nostro linguaggio, tanto per cominciare. Ci sono tanti Paesi che si sono allineati più facilmente al paradigma del rock mentre noi abbiamo una tradizione musicale dura a morire e come sempre c'è di mezzo l'industria discografica che ragiona per luoghi comuni tipo "il rock non fa per noi" - "non piace agli italiani", portati alle estreme conseguenze, tendendo a scoraggiare chi fa queste cose qui salvo poi ritrovarsi i Måneskin che fanno il botto e tutti cercano i nuovi Måneskin. Alcuni discografici sono come quelli che commentano la partita di calcio domenicale al lunedì, tutti bravi a dire "era ovvio che vincesse questo o quello".
Annalisa Di Rosa, promotion manager di Sony, non la pensa troppo diversamente: "Senza voler fare indagini sociologiche che non mi competono, credo il punto sia un po' da ricercare nel fatto che il rock si è abbastanza eclissato negli ultimi anni a favore di urban/trap/rap, che sono come dire la rivalsa del singolo a sfavore di un genere che si fa per antonomasia in gruppo.
Come dire sul palco uno ci va da solo e i soldi li fa da solo. E' l'affermazione e il riscatto del singolo solo contro tutti, che ha successo senza bisogno di spalle o compagni di band. Questo se penso ai tempi recenti".
"Se vado indietro nel tempo non mi viene da identificare l'Italia come nazione dalle grandi band rock/pop in ogni caso", ci dice ancora Annalisa. "Quando nel mondo esplodevano le band da fine anni '50 in poi noi avevamo i cantautori (a parte alcune rare eccezioni che però non hanno mai sfondato all'estero). Comunque basta leggere Around the Clock di Franco Fabbri per capire che è anche e soprattutto una questione culturale: la storia della musica italiana si base su arie liriche, romanze e bel canto, non ce l'abbiamo proprio nel dna noialtri, la popular music di maggior diffusione è stata di origine afroamericana e angloamericana e li è rimasta, noi siamo sempre arrivati dopo un considerevole quantitativo di tempo, imitando un genere che non ci appartiene davvero nel profondo".
Le fa eco Nina Selvini di Astarte, agenzia che rappresenta i Pinguini Tattici Nucleari (tra gli altri): "Se penso a tutta una serie di band che si rifanno a un certo tipo di rock mi viene da pensare che in Italia l'idea di rock sia un po' troppo contaminata dagli anni Novanta, inizio Duemila, una scia che va da Afterhours o Marlene Kuntz fino ad Arctic Monkeys o Babyshables di derivazione un po' più recente ma sempre abbastanza difficile in Italia trovare qualcuno che si sia legato più all rock anni Settanta o Ottanta. C'è una visione un po' falsata, all'estero parlare di rock e di pop è un'altra cosa, fino al 2016-2017 dire pop qui da noi era una bestemmia. Fino a quel punto qualche band che cantava in inglese, di derivazione più internazionale c'è stata, poi il grande nulla fino proprio ai Måneskin".
E ancora: "C'è anche una visione legata all'hard rock vecchio stile, con braccia incrociate e sguardo torvo, mentre seguire la scia glam è più internazionale, vedi i Greta Van Fleet. Cosa vuol dire rock dovrebbero chiederselo i produttori perché finché si scimmiotta una scena, quella dei 90 appunto, che ha funzionato solo in Italia, difficilmente si fanno i passi avanti, anche perché oggi si tende a cantare sempre in italiano".
Questa della lingua è una problematica che ha mosso anche Enrico Silvestrin, che notoriamente non le manda a dire sulla scena italiana sul suo canale Twitch, da lui ritenuta troppo sommersa, senza capacità di sintesi o di una proposta che possa fare la differenza in terra straniera. Secondo il suo ultimo intervento in materia, negli ultimi anni la discografia si è concentrata solo su prodotti in lingua italiana per il mercato di casa nostra, che notoriamente (se togliamo alcuni exploit in Francia o Spagna) è autoriferito. Non è un caso, secondo lui, che i vari Dalla e De André, considerati geni intoccabili in Italia, non siano assolutamente calcolati fuori dai nostri confini. Che piaccia o meno, l'unico genere in cui l'Italia ha fatto davvero la differenza e in cui ha inventato qualcosa è la disco, diventata poi la dance. Da Raf, Tozzi, Baltimora, Moroder e Cerrone a Robert Miles, Gigi D'Agostino, Benny Benassi. Questi sono, secondo Enrico Silvestrin, gli unici italiani che hanno apportato cambiamenti alla musica nel mondo.
Il rock, anche in questo caso, non è pervenuto. Allora perché si vendono sempre un sacco di chitarre e si formano sempre un sacco di band, pur sapendo che sarà difficile camparci? Ma soprattutto, perché è così difficile suonare rock, con tutte le sue derivazioni, qui in Italia? Pietro Raimondi, voce e chitarra dei Giallorenzo ha le idee piuttosto chiare: "In Italia non ci sono band come i Fontane Democrazia Cristiana per vari motivi. Innanzitutto per un'economia di scala: tutto ciò che è alternative in un Paese molto più popoloso ed influente per gli altri Paesi diventa un fenomeno internazionale pur rimanendo alternative. La stessa cosa in un Paese di 60 milioni di abitanti che ha influenza solo sulla propria cultura e al massimo su quella dell'America Latina ogni tanto con una Laura Pausini rimarrà un fenomeno nazionale se va bene".
Continua: "Credo che qui ci siano delle band rock credibili, i nostri amici di Tempesta e di Dischi Sotterranei presentano tante realtà rock, abbiamo tutta una scena emo che è nata nell'universo dei centri sociali che è totalmente credibile. Il rock italiano ha subito un duplice attacco, a destra dalle major, che non hanno dato spazio di esplosione dopo i grandi classici degli anni Novanta all'interno della discografia ufficiale. A sinistra perché nel periodo '90-2000 si è creato questo antagonismo interno alla scena molto violento, che ha allontanato dalla possibilità di crescita molte realtà rock e ha creato una cultura elitistica auto contraddittoria. Si è fatto fatica ad ambire a grandi palchi e chi fa rock oggi in Italia è debitore di questi due mondi. Poi da noi l'alternative come target si sta spostando sempre di più verso l'approccio punk elettronico. Secondo me i Thru Collected sarebbero stati un gruppo con le chitarre fino a 5-6 anni fa, viceversa il rap e la trap anche mainstream hanno bisogno del rock".
Ma com'è suonare in una rock band oggi? "Noi ci fregiamo di essere una band che suona rock, che registra in presa diretta, di non essere un collettivo ma un vero gruppo. Certo, pensare in quattro è un elemento che ti rallenta rispetto al fare tutto da soli o mettere d'accordo un sacco di gente col proprio nome d'arte che fa una roba diversa dentro lo stesso calderone, quindi mantenere questa attitudine all'interno del mondo musicale di oggi può essere una scomodità pratica. I nostri Fontaines DC o Idles in Italia poi ce li abbiamo avuti, prendi Il Teatro degli Orrori: una cosa con una violenza e una sostanza straordinarie. Fenomeni del genere si sono spenti oppure sono rimasti proporzionati al nostro mercato e siamo da poco usciti dalla sbronza di Pier Paolo Capovilla che ci urla nelle orecchie, quindi oggi probabilmente guardiamo più all'elettronica".
Da queste testimonianze escono fuori spunti molto interessanti, alcuni che supportiamo in toto, altri meno ma comunque che ci danno modo di riflettere. Resta una certezza, per quanto oggi sembri superato fare rock in Italia, da altre parti del mondo la formula funziona sempre alla grande e riempie le arene con nuovi suoni e nuova energia. Che basti crederci un po' di più, da parte di band, etichette, promoter e pubblico? Non è la soluzione, ma potrebbe essere un buon punto di partenza.
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L'articolo Ma quindi il rock in Italia è vivo oppure no? di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2022-06-08 10:17:00
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